Un premier che «semina odio», puntando «deliberatamente ad allargare le divisioni di un Paese già diviso» sulla Brexit. E che rischia magari d’istigare indirettamente la violenza. Ha i toni di un processo in piena regola quello intentato oggi contro Boris Johnson dall’intero fronte dei suoi rivali alla Camera dei Comuni, dopo la riapertura seguita al verdetto bomba della Corte Suprema e sullo sfondo di uno stallo e di un conflitto ormai totali.
Una requisitoria a più voci, qualcuna della quali inizia confusamente a pronunciare la parola 'impeachment', come a voler cogliere un improbabile spunto dal caso americano di Donald Trump, innescata dal rovente botta e risposta avuto ieri dal primo ministro con l’aula.
E dal suo rifiuto di scusarsi persino su un riferimento sbrigativo - parso a molti oltraggioso - sfuggitogli nella foga su Jo Cox: la deputata del Labour uccisa nel 2016 al grido di «Britain First» da un solitario estremista di destra mentre faceva campagna referendaria pro Remain. La polemica ha raggiunto livelli di ebollizione con pochi precedenti per gli standard britannici.
E sta oscurando in queste ore quasi tutto il resto, incluse le sempre più incerte prospettive d’un nuovo accordo di divorzio con l’Ue prima della scadenza del 31 ottobre. Scadenza che il governo continua a indicare come invalicabile, a dispetto della legge anti-no deal impostagli da un Parlamento nel quale non ha più lo straccio di una maggioranza su nulla (sette voti su sette persi).
Domani il ministro Stephen Barclay è di nuovo a Bruxelles per incontrare il capo negoziatore europeo Michel Barnier, che oggi ha tuttavia ribadito di considerare ancora largamente insufficienti le proposte parziali giunte da Londra sulle ipotetiche soluzioni alternative alla contestata clausola del backstop a garanzia di un confine irlandese senza barriere.
E intanto a Westminster l’esecutivo non riesce a far passare nemmeno la mozione su un recesso di 3 giorni per la conferenza annuale Tory in programma a Manchester la prossima settimana: atto di cortesia in genere scontato per tutti i maggiori congressi di partito, ma che stavolta è stato bocciato con 306 no contro 289 sì. Tutto per punire BoJo e la strategia che gli viene imputata della retorica «popolo contro Parlamento».
Strategia non inefficace, sondaggi alla mano, che punta a imbarazzare gli avversari sulle elezioni anticipate: evocate insistentemente dal governo, anche con l’offerta di sottoporsi a un voto di sfiducia, e tuttavia bloccate dall’ostruzionismo delle opposizioni almeno fino a novembre, nella speranza di riuscire nel frattempo a obbligarlo al rinvio della Brexit.
Di qui il clima rovente, tracimato ieri sera nelle solite accuse del premier ai contestatori di essere paladini della "resa"; e sul fronte opposto nella grida al «fascismo» e al «golpe» contro di lui. Ma arrivato davvero al punto di rottura quando Johnson ha replicato «cavolate» (humbug) a una deputata, Paula Sheriff, che gli rinfacciava il rischio di un nuovo caso Jo Cox.
Toni «vergognosi» e «riprovevoli», figli d’un preciso calcolo «populista», hanno reagito i laburisti, dal leader Jeremy Corbyn a Jess Phillips, amica della vittima, spalleggiati non solo da tutte le opposizioni, ma pure da Tory moderati e dai due veterani bipartisan della Camera: il Father of the House, Ken Clarke, e la Mother of the House, Harriet Harman.
Toni per i quali il premier, assente oggi platealmente in aula, non ritiene del resto di doversi «rammaricare», ha fatto sapere Downing Street. Impermeabile alle critiche addolorate dello stesso vedovo di Jo Cox, pur attento a condannare gli eccessi verbali «di tutte le parti». E finanche a quelle di sua sorella Rachel Johnson, legatissima a lui nonostante i dissidi familiari sulla Brexit, che questa volta una cosa non riesce proprio a perdonargliela: «il cattivo gusto».
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