Il thriller sulla Brexit per ora resta in sospeso: la proroga oltre il 31 ottobre ci sarà, ma l'Ue si riserva di far sapere solo all’ultimo momento fino a quando. E mette intanto pressione sul Parlamento britannico, chiamato lunedì a decidere se scegliere la strada delle elezioni invocate da Boris Johnson il 12 dicembre, per provare a rompere finalmente lo stallo, o proseguire nel rimpiattino. L’estenuante partita a scacchi si consuma ancora a Bruxelles, dove ad agitare qualche possibile divisione in seno al club del 27 sembra la Francia. Ma soprattutto a Londra, dove il guanto di sfida sul voto anticipato lanciato dal primo ministro Tory scuote il lacerato Labour di Jeremy Corbyn, principale partito di opposizione, determinante per far passare con il necessario quorum dei due terzi la nuova mozione annunciata dal governo sullo scioglimento della Camera dei Comuni. Corbyn ha atteso più di 12 ore per rispondere all’inquilino di Downing Street, baldanzoso a dispetto della promessa ormai inevitabilmente rimangiata di far uscire il Regno dall’Ue entro fine ottobre a costo di farsi ritrovare «morto in un fosso». E la risposta è stata ancora una volta un flebile sì, ma. "Qualora il primo ministro venga in Parlamento lunedì e renda assolutamente chiaro di voler assicurare che non vi sarà un divorzio senz'accordo», allora la leadership laburista darà il suo ok alle elezioni, ha detto il compagno Jeremy, costretto a fare i conti con la contrarietà alle urne di una parte non piccola di deputati del suo gruppo: timorosi di perdere il proprio seggio e/o aggrappati ancora alla speranza (coltivata dai pro Remain più convinti) di poter arrivare a un secondo referendum sulla Brexit prima delle elezioni rovesciando una maggioranza parlamentare finora contraria a questa opzione. Johnson «deve» dare queste rassicurazioni, ha insistito, poiché "il suo accordo include ancora la possibilità di un’uscita no deal e il Parlamento deve potergliene chiedere conto». Parole che non sciolgono davvero la riserva posta da tutti coloro - inclusi i leader di altre forze d’opposizione, dagli indipendentisti scozzesi dell’Snp ai liberaldemocratici - non vorrebbero farsi dettare i tempi del voto da BoJo (dato per favorito dai sondaggi attuali, pur senza garanzie di poter strappare una maggioranza assoluta di seggi) e preferirebbero continuare cercare di tenere in ostaggio l’esecutivo. Un atteggiamento che Johnson si sforza di stanare in tutti i modi, tornando a cavalcare la retorica popolo contro palazzp condita da qualche espressione macista. Oltre che cercando di personalizzaro il duello con Corbyn, preso di mira per la sua estrazione di sinistra d’antan ("comunista», a dar retta al premier) e tratteggiato nei panni di leader incerto, impaurito, ondivago, in balia degli eventi o del volere altrui. «Il Labour - provoca Boris - è diviso dal vertice alla base. E’ tempo che Corbyn faccia l’uomo e che il Paese vada al voto». Approvare l'accordo da lui raggiunto con Bruxelles sarebbe «molto semplice - incalza - ma nessuno crede che i laburisti vogliano consentire la Brexit senza una scadenza elettorale il 12 dicembre": l’arma finale per sferzare un «Parlamento che finora ha solo rinviato». Parlamento su cui incombe del resto pure l’irritazione della spazientita Francia di Emmanuel Macron. In prima fila, a quanto pare, nel frenare sulla durata di un’estensione rispetto alla quale i 27 non hanno preso oggi una decisione, come confermato dal capo negoziatore Michel Barnier. Salvo limitarsi a formalizzare «in linea di principio» di volerne concedere una. L’orientamento generale è per un rinvio di altri 3 mesi, fino al 31 gennaio, interregno durante il quale Londra dovrebbe paradossalmente nominare persino un commissario europeo. Ma l'Eliseo lascia intendere - di sponda con Downing Street - d’essere pronto a dar luce verde solo laddove Westmister dia una buona volta un taglio netto dicendo sì alle urne; e fa aleggiare in caso contrario una dilazione di appena 2 settimane: giusto il tempo, a quel punto, di ratificare il 'Boris deal'.