«Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare». Non erano solo cinesi le vittime del tir dell’orrore sbarcato martedì sera nel sud dell’Inghilterra dal Belgio, a differenza di quanto sbrigativamente annunciato ieri dalla polizia britannica. E non sono morte tutte in silenzio, senza lasciare un’ultima, drammatica testimonianza dell’ennesima strage di migranti. Il messaggio più straziante rimbalza dal Vietnam, dove i genitori di una ragazza poco più che ventenne si dicono convinti che la loro figlia fosse una delle 39 persone - 31 uomini e 8 donne - ritrovate senza vita nel container frigorifero di quel maledetto camion approdato a Purfleet, alla foce del Tamigi, in arrivo dal Belgio. Tappa finale di uno dei tanti viaggi infernali organizzati da reti di trafficanti di esseri umani che anche in Occidente lucrano sulla disperazione dell’immigrazione clandestina. Odissea su cui la Essex Police seguita a indagare, in collaborazione con altre agenzie di sicurezza e autorità di vari Paesi. Nell’ambito di un’inchiesta che ha portato finora a quattro arresti: l’autista nordirlandese del tir, Mo Robinson, di 25 anni; due presunti basisti del traffico, uno uomo e una donna di 38 anni residenti entrambi a Warrington, nel Cheshire, in Inghilterra; e un 48enne nordirlandese fermato nelle ultime ore mentre cercava di imbarcarsi su un volo all’aeroporto di Stansted. Ma nuove ombre continuano a spuntare. L’identificazione di tutti e 39 i morti come cinesi, fatta sulla base dei primi accertamenti dagli investigatori del Regno probabilmente solo per i tratti somatici asiatici di quei cadaveri, è stata rimessa in discussione dall’ambasciata di Pechino a Londra. Tanto più che gli esami dei medici legali sono appena iniziati, come la stessa polizia ha poi riconosciuto. Almeno tre famiglie vietnamite, appreso dell’accaduto, hanno denunciato d’altronde il tragico sospetto di aver perso dei loro cari nell’oscurità di quel rimorchio. Due, a quanto riferiscono il Guardian o la Bbc, hanno fatto sapere di aver ricevuto giusto martedì messaggi di un figlio 26enne e di una figlia 19enne che scrivevano di essere sul punto di salire a bordo di «un container» in Belgio e di dover «spegnere il telefonino» per evitare di poter essere individuati ai controlli di confine. Ma il racconto più terribile, in presa diretta, è quello dei genitori di Pham Thi Trà My, una giovane di 26 anni che il cellulare evidentemente a un certo punto deve averlo riacceso. I suoi messaggi risalgono a poco dopo le 22 di martedì, orario britannico: quando il container, stando alle indagini, era in navigazione su un ferry nel Mare del Nord fra Zeerbrugge e Purfleet. Messaggi d’addio destinati alla madre, con la spaventosa consapevolezza di una morte imminente: senz'aria e senza luce. Nove in tutto, di poche parole ciascuno. «Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare». Poi, come a volersi identificare, qualche indicazione sul suo luogo d’origine: «Sono di Nghèn, Can Loc, Hà Tinh, in Vietnam». E di nuovo «mi dispiace mamma». Con un cuoricino come ultimo sospiro. Un segnale che ha fatto scattare l’allarme più angoscioso e ha smosso un pò tutti: dall’ambasciata vietnamita a Londra a numerose organizzazioni per i diritti umani, alla stessa Essex Police. Si è così scoperto che Pham s'era messa in mano a trafficanti locali già in patria, pur di partire. Per poi raggiungere la provincia cinese di Ha Tinh, uno degli snodi del moderno schiavismo d’esseri umani in Asia, e da qui la Francia e il Belgio. I controlli sul suo destino sono ora in corso. Mentre la commozione prende alla gola tanti, ma non tutti. Non tutti i lettori del Mail per esempio, tabloid di riferimento di un certa pancia dell’Inghilterra profonda, sulla cui edizioni online si possono leggere post - e non sono pochi - come questo: «Quando ho letto che erano cinesi, mi si è illuminata la giornata».