La macchina della Brexit si rimette in moto e il casello d’uscita della Gran Bretagna dall’Ue è ormai dietro l’angolo: il 31 gennaio. Impacchettata sotto l'albero di Natale, la legge di ratifica dell’addio a Bruxelles, modificata in chiave sprint e con un’impostazione più netta da Boris Johnson dopo il trionfo elettorale del 12 dicembre (anche a costo di far riesumare in prospettiva qualche timore teorico di un no deal a scoppio ritardato), ha superato facilmente oggi il primo scoglio parlamentare della nuova era.
Il via libera della Camera dei Comuni al testo riveduto e corretto dello Eu Withdrawal Agreement Bill è arrivato a valanga, senza sorprese. Non ha rovesciato gli oltre 200 voti di scarto incassati in negativo da Theresa May l’anno scorso, nella più umiliante sconfitta subita da un governo di Sua Maestà nell’intera storia del Regno, ma ci è andato vicino: con 358 sì contro 234 no e un divario di più 124, superiore di 44 deputati alla pur larga maggioranza assoluta garantita dalle urne la settimana scorsa al gruppo Tory.
Un risultato a cui ha contribuito anche il voto favorevole di 6 laburisti brexiteer (in contrasto col no ufficiale del leader uscente Jeremy Corbyn) e l’astensione di ben 32 loro compagni. Il segno di una partita chiusa, che Johnson sa ora con certezza di poter condurre in porto, secondo un calendario pure approvato dall’aula, prima della metà di gennaio. In modo da lasciare tempo al Parlamento europeo per dare a sua volta il placet ampiamente entro la scadenza di fine gennaio.
«Prendiamo nota del voto ai Comuni e siamo pronti», fa sapere del resto un portavoce dell’Ue. BoJo da parte sua esulta via Twitter, mentre in un comunicato diffuso da Downing Street evoca «l'alba» di un nuovo inizio per il Paese, paragonando il voto odierno a un regalo «incartato per Natale al popolo britannico». «È tempo di andare avanti», insiste in Parlamento all’insegna di quell'ottimismo che tanti voti gli ha portato, di superare «le etichette di Leave e Remain», di riconciliarsi in un Regno «rinvigorito e unito».
Le critiche tuttavia restano, per quanto ormai impotenti, su un testo che nella versione aggiornata prevede fra l’altro un emendamento che vieta per legge l’estensione della transizione post-divorzio al di là del 31 dicembre 2020, oltre ad attribuire a tutti i tribunali britannici (e non più solo alla Corte Suprema) il potere di riesaminare in futuro le sentenze della Corte di Giustizia Europea.
Il dimissionario Corbyn e alcuni dei suoi possibili successori intervengono in aula per riconoscere che l’elettorato ha parlato chiaro e la Brexit va attuata; non senza ribadire però che il 'Boris deal' è «terribile», che non onora la promessa di tutelare l’economia, il lavoro o i diritti. Ma soprattutto che rischia di rischia di «resuscitare» lo spettro di «un devastante no deal alla fine dell’anno prossimo», pur di escludere a priori qualunque estensione del divorzio per provare a forzare la mano all’Ue in soli 11 mesi di complessi negoziati sulle relazione future.
Un timore quest’ultimo respinto da Johnson, secondo cui i tempi compressi «rafforzeranno al contrario» la posizione di Londra nelle trattative su un’intesa di libero scambio, visto che i 27 hanno dimostrato di non voler in nessun caso il no deal. Mentre nel botta e risposta con gli indipendentisti scozzesi dell’Snp, stando ai quali «la Scozia non può essere portata fuori dall’Ue senza il suo consenso» e ha adesso «il diritto democratico» a un referendum bis sulla secessione, la replica rimane un secco no. Ispirata dalla scommessa di essere nelle condizioni di smascherare alla fine il bluff.
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