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Scontri e arresti a Hong Kong al corteo pro-Uighuri

Il caos invade di nuovo le strade di Hong Kong, teatro di una manifestazione del movimento pro-democrazie in solidarietà con gli Uighuri, la minoranza islamica dello Xinjiang, che Pechino è accusata di opprimere. La manifestazione, che ha fatto infuriare Pechino, è partita in modo pacifico.

Un migliaio di persone si è radunato a Edinburgh Place, sul lungomare davanti al porto, dove alcuni attivisti in un comizio hanno lanciato l’Sos: quello che succede ora nello Xinjiang, un giorno succederà anche qui a Hong Kong, che diventerà parte integrante in tutto e per tutto della Repubblica popolare cinese nel 2047, quando finirà il regime «un Paese, due sistemi».

«Noi non dimentichiamo quelli che condividono con noi un fine comune, la nostra lotta per la libertà e la democrazia e la rabbia contro il Partito comunista», ha scandito dagli altoparlanti uno degli oratori. Molte le bandiere separatiste blu con mezzaluna bianca del 'Turkestan orientale', il territorio storico dove vivono gli Uighuri nell’attuale regione semiautonoma dello Xinjiang.

Molti i manifestanti che indossavano maschere bianche con la bocca "tappata" da una mano rossa con falce e martello. Poi la situazione è degenerata e si è scatenata la reazione della polizia quando qualcuno ha tirato giù una bandiera cinese dal palazzo del governo. La polizia è immediatamente intervenuta con i manganelli e gli spray urticanti, ai quali i manifestati hanno risposto col lancio di bottiglie e sassi.

E nel centro sono ripartiti gli scontri, dopo che nella giornata di sabato gli agenti erano intervenuti in alcuni centri commerciali per arrestare attivisti organizzati in piccole proteste. La protesta per la prima volta ha gettato un ponte ideale di solidarietà fra i due angoli opposti della Cina, unendo le due facce dell’odiato regime cinese. «La falsa 'autonomia' in Cina porta al genocidio», recitava uno striscione esibito oggi, che accomunava le due situazioni.

Di recente le Nazioni Unite e diverse organizzazioni per i diritti umani hanno accusato la Cina di aver imprigionato fino a un milione di Uighuri - che, oltre a essere musulmani, parlano una lingua di ceppo turco - in campi di rieducazione dal 2017 e di volerne sradicare la cultura e l’identità di nazione. Una campagna, quella cinese, condannata dagli Stati Uniti e da gran parte dei Paesi occidentali.

Pechino ha risposto che i campi forniscono agli 'ospitì un «addestramento attitudinale» per estirpare il 'separatismo', che è sfociato anche in sporadici episodi di terrorismo, e per «insegnare dei mestieri», negando qualsiasi abuso. La scorsa settimana il giocatore dell’Arsenal Mesut Özil, di origini turche, ha fatto infuriare Pechino, criticando la politica di assimilazione cinese nei confronti degli Uighuri, chiamando questi ultimi «guerrieri che resistono all’oppressione», tirando fendenti non solo a Pechino, ma anche ai musulmani del mondo, restati in silenzio di fronte alla  vicenda dei loro fratelli del Turkestan.

«Io credo che le libertà fondamentali e l’indipendenza debbano riguardare tutti i popoli, non solo Hong Kong», ha dichiarato ai media Wong, un’attivista di 40 anni che ha partecipato alla manifestazione nell’ex colonia britannica insieme al marito.

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