Il tavolo dei negoziati sulle relazioni del dopo Brexit fra Londra e Bruxelles è ormai apparecchiato, ma non sarà un pranzo di gala, piuttosto un braccio di ferro. A certificarlo sono le linee guida del mandato conferito ai negoziatori britannici guidati da David Frost, presentate oggi dal governo conservatore di Boris Johnson in un documento di 30 pagine concepito alla stregua di una raffica di 'no' alle indicazioni di partenza dell’Ue. Con tanto di conferma categorica dell’intenzione di non far durare la fase di transizione nello status quo attuale nemmeno un giorno in più oltre la scadenza del 31 dicembre 2020; e di minaccia - forse tattica, ma ugualmente forte - di abbandonare la trattativa già al momento della verifica prevista per giugno, se nei prossimi tre mesi non si dovessero fare passi in avanti. Toni che fanno riemergere su entrambe le sponde della Manica l'eco esplicita dell’incubo che l’accordo sul divorzio aveva allontanato: quello di un no deal, seppur a scoppio ritardato. Un epilogo a cui l’Unione «è preparata», ha avvertito subito la portavoce della Commissione, Dana Spinant, pur aggiungendo che al momento è prematuro pronosticarlo. Ma in effetti un epilogo che spaventa tutti: il Regno (City in testa), al quale secondo le ultime stime di fonte Onu rischierebbe di costare fino al 14% delle esportazioni, pari a 32 miliardi di dollari; come pure i 27, alle prese con un quadro di affanno economico già alimentato da svariati fattori, emergenza coronavirus compresa. Il via al confronto, o alle ostilità, è fissato per l’inizio della settimana prossima. E le carte smazzate a Londra hanno i colori d’una sfida. «Non accetteremo alcun obbligo sull'allineamento delle nostre leggi a quelle dell’Ue o a istituzioni europee come la Corte di Giustizia, che non avrà più nessuna giurisdizione nel Regno Unito» dopo la transizione, ha tagliato corto il ministro Michael Gove, numero due de facto del governo Johnson, illustrando i contenuti del mandato alla Camera dei Comuni in polemica con un fronte d’opposizione (laburisti, liberaldemocratici, indipendentisti scozzesi) tanto allarmato quanto impotente dopo il trionfo Tory alle elezioni di dicembre. Parole tranchant che respingono seccamente l’approccio su alcuni punti chiave della strategia europea rimarcati in questi giorni a più riprese da Michel Barnier, capo negoziatore francese di Bruxelles; incluso su temi cruciali quali la politica fiscale o l’annunciata stretta sull'immigrazione. E a cui si aggiunge il rifiuto non meno netto di legare l’accordo commerciale a «zero dazi» sulle merci, che tutti evocano, a una parallela intesa sulla pesca, fondamentale per Parigi: dossier "inseparabili» fra loro nella retorica di Barnier; «totalmente separati» in quella di Gove, stando al quale il Regno ha tutto il diritto di gestire in futuro le sue acque da «Stato sovrano». Quanto alla base di regole comuni che Bruxelles pretende per evitare i rischi di concorrenza sleale (level playing field), Gove si è limitato ad assicurare standard elevati sull'isola su materie come ambiente e diritti dei lavoratori anche in avvenire, ma ha escluso che a dettarle dal 2021 possa essere qualsiasi forma di adeguamento automatico alle norme comunitarie. Rivendicando del resto come su alcuni temi la legislazione britannica sia già più avanzata di quella europea. Il botta e risposta (cui Barnier ha reagito provando stavolta a stemperare il clima con un richiamo al rispetto degli «impegni presi», ma anche all’obiettivo «possibile» di «un partenariato ambizioso ed equo") non risparmia il destino della cooperazione su difesa, sicurezza, lotta al terrorismo: a partire dall’addio di BoJo e soci al mandato d’arresto europeo. In uno scenario più ampio nel quale le parti si rinfacciano l’un l’altra di voler forzare i paletti delineati nella Dichiarazione Politica sulle relazioni future firmata congiuntamente mesi fa a mò di cornice allegata al deal sul recesso britannico dall’Unione. E nel quale Gove insiste sulla necessità di «emulare il tipo di rapporti (commerciali) che l’Ue ha già con altri Stati sovrani», come il Canada, per rendere più spedite le prospettive di un’intesa entro fine anno; rispondendo alla convinzione di Barnier secondo cui il Regno sarebbe «un caso unico», imparagonabile al remoto esempio canadese data la sua prossimità geografica e interdipendenza con i 27, che «la vicinanza non è un fattore decisivo in un Trattato di libero scambio». Poiché «la geografia non è una ragione per minare la democrazia»