Raccomandazioni più che divieti. In Inghilterra, l'emergenza coronavirus è stata dapprima affrontata con provvedimenti tutt'altro che draconiani. Vuoi per un substrato culturale incentrato sul “self control” e “no panic”, vuoi per le strategie e scelte alquanto discutibili del primo ministro Boris Johnson. Ma a lungo andare, nel Paese della Regina Elisabetta, le teorie dell'immunità di gregge e del “si salvi chi può” hanno lasciato il passo a misure più stringenti. Infatti, la tanto temuta curva epidemica è entrata nelle dimore degli inglesi e dei tanti stranieri che popolano una metropoli di dieci milioni di abitanti. Soprattutto quanti dall'estero si sono trasferiti sulle rive del Tamigi esprimono maggiore preoccupazione, come la messinese Sara Isaya, 41 anni, veterinaria. «Sono rientrata a Messina per trovare i miei familiari lo scorso 7 marzo, con un volo diretto da Londra, dove tutto nel frattempo era nella norma: non si avvertiva così tanto la presenza del coronavirus, se ne parlava osservando quanto si registrava altrove. In Italia la situazione già era ben differente, vista l'emergenza nel Settentrione. Il 10 marzo, sono ripartita dalla Sicilia, da quel momento mi sono messa in autoisolamento a Londra, secondo quanto stabilito il giorno prima dal Governo. Rimarrò in casa fino a oggi. Nel frattempo, ho seguito l'evoluzione dei fatti in tv, su Internet e in base ai racconti del mio compagno Andrea, anche lui siciliano, ingegnere che ha lavorato in ufficio fino al 16 marzo». Nel momento in cui Johnson ha discettato di immunità di gruppo e abitudine alla perdita delle persone più care «ciò ha turbato in particolar modo gli italiani a Londra, consci di quanto stava accadendo in Lombardia e Veneto». Così, molti connazionali hanno tentato di rimpatriare. Ma in Inghilterra la reale portata del problema ha preso piede una decina di giorni or sono, «quando si è data la possibilità di lavorare da casa e si è consigliato di rispettare la distanza sociale - aggiunge Sara Isaya -. Il Governo si è però limitato a fornire raccomandazioni, senza misure restrittive fino alla decisione di chiudere pub, ristoranti, teatri, cinema». Nello stesso momento, l'assalto ai supermercati è avvenuto con più frequenza: «Ho provato a fare la spesa online, mentre prima veniva consegnata in giornata adesso sono necessarie settimane di attesa e spesso è impossibile accedere al servizio. Mancano carta igienica, pasta, riso, uova, farina, pane, disinfettanti e detersivi». Lo scorso weekend il quadro è precipitato: «Il mio compagno è riuscito a trovare poco e niente. Recentemente, molti market si sono organizzati per creare turni ad hoc, in modo da servire over 70, donne in gravidanza, persone con patologie e impiegati nel servizio sanitario nazionale. Solo in un secondo momento Boris Johnson si è reso conto che la situazione stava peggiorando progressivamente». E ha anche adottato le prime misure economiche, come il pagamento dell'80% degli stipendi fino a 2500 sterline mensili per le prime 12 settimane a beneficio di chi è inoccupato per uffici chiusi. Sul fronte sanitario, spiega la 41enne, «i soggetti vulnerabili devono autoisolarsi o ridurre al minimo i rapporti sociali. Inoltre, i tamponi effettuati sono pochissimi, chi ha sintomi riferibili al coronavirus deve stare a casa per sette giorni, chi è venuto a contatto con qualcuno con tosse e febbre deve rimanere tra le mura domestiche per 14 giorni. Non è vietato uscire, pochi mettono le mascherine. Chiuse 40 fermate della metro e alla cittadinanza è consigliato di prendere i mezzi pubblici soltanto se “strictly necessary”. Ora l'emergenza si tocca con mano». Tant'è che Johnson, lunedì, “si è convinto” a stringere le maglie: restare a casa, uscire solo se urgente, ma sport consentito all'aperto. British style.