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Boris Johnson e la battaglia contro il Coronavirus: "Medici pronti alla mia morte"

Boris Johnson

A un passo dal sipario finale: con la salute che precipitava a vista d’occhio, i polmoni a corto di aria, i medici preparati al peggio e «un piano, tipo quello per la morte di Stalin», già pronto a scandire i tempi dell’annuncio dell’ipotetica dipartita del primo ministro britannico. Un giorno dopo, come fu nel 1953 per il Padre dei Popoli sovietico. Boris Johnson ha raccontato così, nei dettagli, l’angoscia e la rinascita della sua esperienza al St Thomas Hospital, dopo l'aggravamento del contagio da coronavirus sfociato nelle tre notti da incubo passate in terapia intensiva prima di Pasqua.

Un’esperienza, ha svelato al Sun on Sunday, ben più estrema di quanto i comunicati edulcorati da Downing Street potessero aver fatto immaginare. Tale da cambiare almeno in parte il modo di vedere le cose del premier Tory, che ora, neopapà da pochi giorni a 55 anni di Wilfred Lawrie Nicholas, avuto dalla futura terza moglie Carrie Symonds, giura d’avere una priorità assoluta: «restituire la salute» al popolo britannico (in un Paese già secondo in Europa in cifra assoluta dietro l’Italia per numero di morti da Covid-19, ma avviato presumibilmente a diventare primo) e allontanare altre «sofferenze"; iniziando al contempo a delineare in pubblico da giovedì prossimo le tappe d’un programma per «rimettere in piedi» l’economia nazionale in vista d’una fase 2 da rendere operativa, tuttavia, solo quando sarà scongiurato il rischio di «un secondo picco» d’infezione.

«Mi hanno dato una maschera per il viso, ho ricevuto litri e litri di ossigeno. È stato un momento difficile, non lo nego», ha rievocato Johnson al tabloid di casa Murdoch nella prima intervista concessa fin dal giorno del ritorno al lavoro, lunedì scorso. Una narrazione in crescendo, la sua. Il contagio, al principio considerato lieve, il peggioramento, l’ammissione d’aver «rifiutato di accettare» all’inizio la realtà delle proprie condizioni, la gratitudine verso i medici che lo hanno infine spinto al ricovero e lo hanno poi curato e salvato. La piena coscienza del pericolo, ha spiegato, è arrivata un pò per volta, specie quando i monitor hanno cominciato a mostrare che ogni indicatore andava «in direzione sbagliata».

A quel punto tutto è diventato chiaro: «Ero consapevole che c'erano piani di emergenza in atto, che i dottori avevano le disposizioni pronte su cosa fare se le cose fossero andate male male». «Nella mia vita mi sono rotto il naso, un braccio, delle costole, quasi tutto, ma non ho mai provato nulla di simile», ha confessato BoJo: «Era difficile credere che in pochi giorni la mia salute si fosse deteriorata tanto; il momento più brutto è venuto quando le probabilità di mettermi un tubo nella trachea sono salite al 50%». Il momento nel quale tutto avrebbe potuto essere perduto in un attimo: i successi politici (dalla Brexit alle elezioni), la famiglia, il sesto figlio in arrivo, la vita. Ora, nelle parole di Johnson, l’obiettivo principe deve esser quello di «non far soffrire» altra gente.

Pur non senza il parallelo «desiderio travolgente di rimettere in piedi il Paese, molto fiducioso che ci arriveremo». Un impasto di prudenza e ottimismo che la guarigione e la nascita del piccolo Wilfred (al cui pensiero Boris appare apertamente commosso) alimentano.  Mentre già uno dei suoi ministri, Grant Shapps, parla di turni di lavoro futuri «scaglionati» per far tornare all’opera milioni di britannici - forse a giugno - senza pregiudicare le cautele del «distanziamento sociale": ancora necessarie su un’isola che veleggia verso i 30.000 morti e dove i quesiti sulla risposta iniziale del governo all’epidemia si moltiplicano fino allo scetticismo di due terzi della popolazione. A dispetto di sondaggi tuttora favorevoli al Partito Conservatore e della popolarità d’un premier addirittura rilanciata in questi giorni dal racconto a cuore aperto di un’odissea che lo umanizza.

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