TikTok come Huawei, nella black list delle aziende cinesi sgradite negli Usa. Potrebbe essere questa la prossima mossa dell’amministrazione Trump in quella che oramai è diventata una guerra di nervi quotidiana tra Washington e Pechino. Il dossier, secondo quanto riporta il Financial Times, sarebbe già sulla scrivania dello Studio Ovale, accanto a quello che prevede il divieto di ingresso negli Usa ai membri del partito comunista cinese e alle loro famiglie. Il presidente americano, stretto tra falchi e colombe, sta valutando il da farsi e la decisione finale dovrebbe arrivare entro un mese. Così uno dei social più popolari al mondo, soprattutto tra i giovanissimi, potrebbe essere vietato, bandito per sospetto spionaggio. Insomma, come il colosso delle tlc tagliato fuori dalla corsa per le reti 5G, l’app di TikTok rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza nazionale e un grimaldello nelle mani della Cina per rubare i dati personali di milioni di americani. Per questo ByteDance, la società cinese che controlla TikTok, verrebbe inserita nella 'entity list’ del Dipartimento al commercio, la lista nera delle entità sottoposte a restrizioni. A fornire le basi legali del provvedimento, come per Huawei, le norme dell’International Emergency Economic Powers Act del 1977, la legge che serve a proteggere il Paese da «minacce non comuni e straordinarie». La stretta si sostanzierebbe nel divieto di vendere a TikTok tecnologie e software, mentre Apple, Google e gli altri app store dovrebbero cessare di fornire ai propri utenti gli aggiornamenti dell’applicazione. Certo, a molti osservatori non sfugge che proprio dalla piattaforma social finita nel mirino della Casa Bianca è partita settimane fa l’azione di sabotaggio del comizio del tycoon a Tulsa, in Arizona, quello che doveva segnare il rilancio della campagna elettorale di Trump ma rivelatosi un fiasco. Attraverso un tam-tam su TikTok erano stati in tantissimi a prenotare un posto nell’arena rimasta poi semivuota, un episodio che ha portato al licenziamento del capo della campagna di Trump. Dunque, il sospetto di una sottile vendetta da parte del tycoon non appare peregrino. Anche se sono in molti a frenare. Come il segretario al Tesoro Steve Mnuchin, che ha condotto molte delle trattative con Pechino, a partire da quelle sui dazi, e propenso a una linea più morbida e conciliatoria. Di diverso avviso invece i falchi Peter Navarro, consigliere commerciale della Casa Bianca, e Matt Pottinger, il vice consigliere per la sicurezza nazionale. Mentre anche il segretario di Stato Mike Pompeo si starebbe spostando rispetto a mesi fa su una linea più dura. Intanto Trump incassa con soddisfazione il risultato di un numero sempre più elevato di alleati che prendono le distanze da Huawei, per ultima Londra. Il pressing asfissiante della sua amministrazione alla fine sembra dare buoni risultati, così ritwitta un articolo dell’Economist intitolato 'La guerra dell’America su Huawei vicina alla conclusionè. Ad alimentare le tensioni tra Washington e Pechino ci sono poi le parole del ministro della Giustizia americano William Barr che ha accusato la Cina di organizzare «una guerra lampo economica» per subentrare agli Stati Uniti come potenza dominante nel mondo. Sarcastico il commento della portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying: «Negli Usa hanno perso la testa, sono diventati matti».