Una sfida all'Ue, ma soprattutto una scommessa sul fronte interno. Sono giorni da battaglia campale quelli che scattano a partire dalla prossima settimana per Boris Johnson, indebolito dall'emergenza coronavirus e dagli ultimi sondaggi, ma deciso a giocarsi il tutto per tutto nella partita negoziale sul dopo Brexit con un contestato progetto di legge (Internal Market Bill) che rivendica spregiudicatamente al Regno Unito il potere unilaterale di rivedere parte degli impegni sottoscritti con Bruxelles dallo stesso premier appena pochi mesi fa nell'ambito dell'Accordo di recesso: a costo di violare a viso aperto il diritto internazionale, di scatenare la furia europea e delle opposizioni, di affrontare il ritorno dei venti di rivolta nel gruppo conservatore a Westminster, oltre che le reprimende di vecchie glorie anti-brexiteer come gli ex primi ministri - un tempo rivali - John Major e Tony Blair.
Incalzato da una fronda crescente di compagni di partito sempre più confusi e a disagio per gli zig-zag che gli vengono imputati, il successore di Theresa May sembra aver perso il tocco magico di trionfatore delle urne persino agli occhi di qualche fedelissimo. Come dimostrano le adesioni a una chat di onorevoli colleghi Tory ribattezzata, secondo le rivelazioni dei media, 'What the fuck is going on' ('Che c... sta succedendo')? BoJo ha spiegato in un articolo sul Telegraph le proprie ragioni, tratteggiando il testo nell'occhio del ciclone come una mossa puramente difensiva: architettata a suo dire soltanto per tutelare, in caso di fallimento definitivo delle trattative al momento in stallo su un trattato di libero scambio con i 27 alla scadenza della transizione post Brexit fissata per il 31 dicembre 2020, la libera circolazione interna di merci e persone fra Irlanda del Nord e resto del Paese.
Un punto su cui Londra aveva accettato delle limitazioni nel quadro delle intese sul divorzio; ma che - sostiene ora l'inquilino di Downing Street - nell'eventualità di un no deal commerciale Bruxelles e Dublino pretenderebbero di trasformare in "una frontiera completa" interna al Regno, con scenari addirittura da "blocco alimentare", volendo imporre "controlli di dogana" generalizzati come conseguenza del mantenimento del confine esterno aperto fra Ulster e Irlanda previsto dagli storici accordi di pace del '98. Un'accusa che il premier irlandese Micheal Martin e il presidente del Consiglio Ue Charles Michel hanno respinto seccamente durante una conversazione avuta oggi. Insistendo che in gioco non vi è "alcun blocco" imposto da altri, piuttosto il rispetto degli impegni. "È tempo che il governo britannico si assuma le sue responsabilità", ha tuonato Michel, sullo sfondo dell'ultimatum a ritirare l'Internal Market Bill entro fine settembre, pena azioni legali e stop negoziale.
Di ritirare la legge, tuttavia, BoJo e soci non hanno per ora la minima intenzione. Domani il testo affronterà il via della cosiddetta seconda lettura alla Camera dei Comuni (in realtà il primo dibattito parlamentare) verso un voto finale atteso entro la settimana successiva. Decisivi saranno nel frattempo gli emendamenti annunciati per provare a svuotare la legge con il sostegno di vari esponenti conservatori: sia della corrente 'moderata', sia d'una parte di brexiteer ultrà, ostili all'Ue ma contrari a mettere in discussione la credibilità britannica in materia di diritto internazionale. Credibilità che Johnson sta "vergognosamente" riducendo a carta straccia, attaccano sul Sunday Times a quattro mani Blair e Major, già protagonisti in tandem di battaglie recenti perdute per un referendum bis sulla Brexit e un voto anti-Boris alle elezioni politiche di dicembre.
Chi contesta deve in effetti ancora dimostrare di poter avere i numeri per rovesciare la maggioranza ai Comuni (più 90 in partenza, sulla carta), ma il rischio scossone stavolta c'è, tanto da suggerire al ministro della Giustizia, Robert Buckley, di difendere oggi con riserva l'Internal Market Bill, giustificato solo come "una polizia assicurativa" a difesa della sovranità sull'Irlanda del Nord. E non senza la postilla d'una vaga minaccia di dimissioni se la violazione della legge internazionale dovesse assumere forme "inaccettabili".
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