Anche in politica internazionale la “saldatura” tra le aree di crisi ha creato degli “hot spot”, dei punti caldi ad alto rischio. Tali da trasformare conflitti regionali in possibili conflagrazioni di più vasta portata. In questo momento, gli spicchi del pianeta da monitorare con estrema attenzione sono, nell’ordine, il Mar Cinese meridionale (Taiwan), il Golfo Persico e il Golan (Iran, Israele ed Hezbollah) e, last but not least, il Donbass, la regione di confine tra Russia e Ucraina. Occupiamoci del primo caso. «Entro il 2025 la Cina potrebbe lanciare un’invasione su larga scala della nostra isola». Parola del Ministro della Difesa di Taiwan, Chiu Kuo-Cheng. Previsione inquietante, perché arriva dopo le dichiarazioni di fuoco, ispirate dallo stesso leader comunista, Xi Jinping, all’inizio del 2021. In quell’occasione, il portavoce del governo cinese, con inconsueta durezza, aveva parlato senza mezzi termini di “guerra”, se ai governanti di Taipei fosse passato per la testa di proclamare l’indipendenza. Pechino considera l’isola una “provincia separatista” e, in qualche modo, farà di tutto per riannetterla. È stato Trump, prima di Biden, ad andare all’assalto del fortino con gli occhi a mandorla. Gli avevano spiegato (sbagliando) che il passivo della bilancia commerciale americana dipendeva dalla scaltrezza dei mercanti cinesi. Per cui il vecchio Presidente si è dato da fare: guerra dei dazi doganali, embargo sulla tecnologia, diplomazia barricadera, accuse sui diritti umani, chiusura di rappresentanze diplomatiche. Una strategia che ha fatto incarognire ancor di più Xi, preparando un clima non certo amichevole per l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Dunque, il nuovo capitalismo-bulldozer cinese ritiene che con i dollari si possa comprare tutto. Anche Taiwan. È solo questione di prezzo. E gli americani, per ora, hanno il fiato grosso in politica estera, sono pieni di debiti, guai sociali ed economici diffusi e, in cauda venenum, hanno una bilancia commerciale che più rossa non si può. Insomma, se sono scappati ignominiosamente dall’Afghanistan per non spendere più un nichelino, potrebbero anche “vendersi”, con una verniciata di perbenistica diplomazia, anche Formosa. Magari con un accordo che le concedesse determinate prerogative, facendola “hongkongizzare”. Biden potrebbe buttare a mare i taiwanesi, come ha già saputo fare con gli afghani, ottenendo in cambio benefici assortiti in campo commerciale e qualche diritto di prelazione sui microprocessori e i semilavorati ad alto valore aggiunto. Vedremo. Voliamo per 5-6 mila chilometri e atterriamo nel Golfo Persico. Qui, “inquietanti” è l’unico modo per definire i “rumors” che arrivano, dall’establishment militare israeliano, sulla possibilità di una guerra con l’Iran. Lo stallo, per non dire il fallimento, dei negoziati di Vienna sul trattato nucleare apre infatti la strada a scenari complicati. Comunque, il succo del discorso proposto in un report approfondito dal quotidiano Haaretz è che, al punto in cui stanno le cose, né Israele e nemmeno gli Stati Uniti hanno il colpo militare del knock-out per distruggere definitivamente le installazioni nucleari iraniane. E allora? La risposta finora è stata (e continua a essere) la “strategia del carciofo”. Cioè spennare l’Iran, foglia dopo foglia, con attacchi mirati. Sperando sempre che non scocchi la scintilla sbagliata. Quella che farebbe saltare la polveriera, mettendo a rischio i “colli di bottiglia” dello Stretto di Hormuz e di Bab-el-Mandeb (Mar Rosso, verso Suez). Abbiamo lasciato buona ultima l’Ucraina, dove la soglia di pericolo forse è più bassa di ciò che sembra. Una volta si diceva: «Morire per Danzica?». Beh, sappiamo come poi è andata a finire. Oggi nessuno si sognerebbe di ripetere la stessa domanda per Kiev. Certo, sull’Ucraina ormai il caos diplomatico regna sovrano, ma dubitiamo che a qualcuno convenga tirare troppo la corda. Il Presidente americano Biden ha consigliato al Cremlino «di non varcare la linea rossa». Si riferisce alle voci, che arrivano dall’intelligence Usa, e che parlano di un’ipotetica invasione russa alla fine di gennaio. Come riportato dal Washington Post. Sinceramente, sembra uno scenario alquanto azzardato. Biden e Vladimir Putin lo sanno e si tengono in contatto. Anche perché dietro questa crisi ce ne sono altre, più subdole e ben più gravi. Non solo politiche, ma anche commerciali. A cominciare da quella, devastante, che coinvolge energia, materie prime e semilavorati ad alto valore aggiunto. D’altro canto, parlando dell’Ucraina, si capisce che stiamo descrivendo una partita di poker, in cui ognuno alza la voce (bluffando), ma poi si accontenta di un “passa parola”, che non fa male a nessuno. Comunque, il copione dice: basta con la strategia di allargare la Nato, costi quel che costi, per strangolare la Santa Madre Russia. Un’operazione di sporca politica egemonica, secondo il Cremlino, mascherata con la solita tiritera della “esportazione della democrazia”.