Lunedì 23 Dicembre 2024

Centrali nucleari, come funzionano e quali sono i rischi della guerra in Ucraina

Le forze russe hann colpito stanotta  "Zaporizhazhia, la maggiore centrale nucleare in Europa", ha scritto su Twitter il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba.. "Se dovesse esplodere, sarebbe 10 volte peggio di Chernobyl. La Russia deve immediatamente cessare il fuoco, consentire ai pompieri» di intervenire e «creare una zona di sicurezza».  Fortunatamente, rivela dichiarato l’Aiea, l’Agenzia Onu per l'energia atomica,  le attrezzature essenziali della grande struttyra incendiata da tiri d’artiglieria russa nel sud dell’Ucraina, non sono state compromesse dall’incendio» e che il personale dell’impianto sta prendendo «misure» per la sua messa in sicurezza. I servizi di emergenza dell’Ucraina hanno spiegato di aver ottenuto l’accesso alla centrale nucleare. «A partire dalle 05:20» (ora locale) «alla centrale nucleare di Zaporizhzhia a Energodar, le unità del servizio di emergenza statale sono andate a spegnere l’incendio nell’edificio di formazione», hanno scritto i servizi di emergenza statali su Facebook, sottolineando che 40 persone e 10 veicoli sono stati coinvolti nell’operazione.

I rischi nucleari nel teatro di guerra ucraino

La drammaticità delle notizie che arrivano dal cuore dell’Europa ha destato grande preoccupazione già nei giorni scorsi anche per i siti nucleari che l’Ucraina ospita sul proprio territorio, accompagnata da particolare apprensione per l’impianto di Chernobyl, sede nel 1986 del più grande disastro dell’era nucleare. Ciò che sta accadendo in questi giorni sul territorio ucraino desta preoccupazione a livello mondiale, come è giusto che sia. Ma allo sconcerto e alla esecrazione generale per uno scenario che nessuno, fino a poco tempo fa, avrebbe mai neppure immaginato potesse riprodursi nella realtà, si aggiungono apprensioni per la tenuta e per l’integrità della rete nucleare ucraina in un teatro bellico esteso come quello attuale. L’Ucraina è una nazione che dipende fortemente dall’energia nucleare, dato che questa fonte copre oggi più della metà dell’intera produzione elettrica del Paese; un Paese che ospita, in quattro siti gestiti dalla Ergoatom, quindici reattori della filiera VVER, di progettazione russa.

Come funziona il reattore nucleare VVER

Il VVER è una tipologia di reattore moderato e raffreddato ad acqua e la si potrebbe accostare a quella dei reattori pressurizzati di matrice occidentale. È inserito in un contenitore d’acciaio massiccio e l’edificio di contenimento è in grado di resistere a pressioni di oltre 12 Megapascal, più di 120 atmosfere, se vogliamo utilizzare unità desuete ma per qualcuno forse più familiari. Nulla a che vedere con la fragilità ingegneristica a vari livelli della filiera RBMK, quella cui apparteneva il reattore di Chernobyl. Gli edifici di contenimento dovrebbero inoltre resistere anche all’impatto con un aereo di linea. Quanto alle assicurazioni del CEO dell’Ergoatom, secondo il protocollo, in caso di un bombardamento gli impianti nucleari verrebbero spenti e scaricati fino a quando la minaccia non venga eliminata. Un teatro di guerra dal quale le notizie spesso trapelano con difficoltà non aiuta a fare analisi troppo dettagliate sull’evoluzione di alcune situazioni. Ma è abbastanza giustificato che il reattore di Chernobyl, rientrato in questo scenario (e passato ora sotto il controllo russo), abbia innalzato il livello di preoccupazione nell’opinione pubblica. E non solo.

Innalzamento dei livelli locali di radioattività, ecco perché

Sono giunte già notizie di innalzamento dei livelli locali di radioattività. Ma questo, al momento, non ha molto a che vedere direttamente con la centrale. Il disturbo della superficie di terreno a opera di mezzi militari pesanti nelle aree adiacenti all’impianto, dove presumibilmente è ancora presente una certa distribuzione di contaminazione, può effettivamente aver riportato in aria una certa concentrazione di radionuclidi. Si tratta però di una situazione assolutamente locale e non eccessivamente drammatica. I problemi potrebbero nascere qualora, per errore o per fatalità, ordigni dovessero colpire l’impianto ricoverato sotto il cosiddetto New Safe Confinement, la struttura di protezione che è stata installata alla fine del 2016 a protezione dell’ambiente e per ovviare alla fragilità del vecchio Sarcofago situato più sotto, costruito in fretta e in furia per chiudere l’impianto disastrato al fine di contenerne le fughe radioattive. Nel sarcofago, sono ancora presenti le quasi duecento tonnellate di combustibile fuso mescolato a parti di reattore, al piombo, alla sabbia: la cosiddetta “lava” radioattiva (corium) che si è depositata sotto il corpo del reattore, solidificandosi. Questa lava col tempo, con processo però abbastanza lento, tende a fratturarsi e a polverizzarsi. Il problema di una eventuale perdita di integrità del sito a causa di esplosioni potrebbe essere rappresentato proprio dalla polvere che si è depositata nel sito nel tempo e che tenderebbe a innalzarsi e a diffondersi nell’area. Che la reazione possa invece accendersi di nuovo a causa di deflagrazioni è da ritenersi molto poco probabile: occorrerebbe raggiungere condizioni abbastanza particolari per giustificarne la possibilità. La dispersione di materiale in aria sarebbe invece plausibile, come si diceva.

Difficile che si ripeta il disastro del 1986

Ma è oltremodo difficile pensare che possano riprodursi le condizioni registrate nel 1986 con l’evento transfrontaliero che portò una nube radioattiva ad attraversare buona parte dell’Europa. Quell’evento si verificò principalmente a causa del cosiddetto “effetto camino”, un forte surriscaldamento prodotto nel tempo dal bruciamento del reattore (soprattutto per la presenza della grafite) che creò una forte bassa pressione locale tale da facilitare la risalita in atmosfera della colonna di fumi radioattivi che entrarono in circolo atmosferico, in quei giorni non favorevole al territorio europeo. Una enorme colonna di fumo caldo ad altissima densità di radionuclidi radioattivi, soprattutto di quelli più volatili. Sono trascorsi quasi quarant’anni da quei giorni. Si è esaurita già una emivita (tempo di dimezzamento della radioattività) per quei prodotti che decadono con un tempo confrontabile. Anche il calore di una o più eventuali (e sempre malaugurate!) esplosioni non potrà provocare un effetto camino come quello che si registrò nel 1986. E, come allora, i prodotti più “pesanti” (uranio, plutonio, ecc…), non così facilmente percorrerebbero lunghe traiettorie. In definitiva, qualora dovesse presentarsi una sciagurata ipotesi di attacco all’impianto con effetti anche seri, l’evento dovrebbe avere la dimensione di un’area abbastanza limitata. Ma, a questo punto, a chi gioverebbe, visto che ne sarebbero coinvolte anche le truppe di occupazione presenti sul territorio?

La fissione nucleare

La fissione nucleare - spiega il sito del Ministero della Transizione Ecologica - è un particolare processo di disintegrazione durante il quale nuclei pesanti, come quelli dell’uranio o del torio, se opportunamente bombardati con neutroni, si dividono in due frammenti, entrambi di carica positiva, che si respingono con violenza allontanandosi con elevata energia cinetica. Con la fissione si liberano anche neutroni che possono a loro volta indurre altre fissioni innescando la cosiddetta reazione a catena che, in un reattore nucleare, permette di mantenerlo in funzione producendo energia in modo continuo e costante. Nelle centrali nucleari il calore sviluppato dalle reazioni di fissione permette di scaldare l’acqua fino a produrre vapore. Come nelle convenzionali centrali termoelettriche a combustibile fossile (olio combustibile, carbone o gas naturale), l’energia liberata sotto forma di calore viene trasformata prima in energia meccanica e successivamente in energia elettrica: il vapore prodotto aziona infatti una turbina che, a sua volta, mette in moto un alternatore. La fissione di 1 grammo di uranio produce un quantitativo di energia pari a quella ottenibile dalla combustione di circa 2800 kg di carbone senza la produzione di gas serra caratteristica dei combustibili fossili. Con circa 440 reattori in funzione in 30 paesi diversi, la fissione nucleare rappresentava, alla fine del 2019, il 10% della produzione mondiale di elettricità.

 La fusione nucleare

La fusione è la reazione nucleare che avviene nel sole e nelle altre stelle, con produzione di una enorme quantità di energia: due nuclei di elementi leggeri, quali deuterio e trizio, a temperature e pressioni elevate, fondono formando nuclei di elementi più pesanti come l’elio con emissione di grandi quantità di energia. I due nuclei possono fondersi solo a distanze molto brevi, affinché questo accada è necessario che la velocità con cui si urtano sia molto alta: la loro energia cinetica (e quindi la temperatura) deve essere molto elevata. Per ottenere in laboratorio reazioni di fusione è necessario portare una miscela di deuterio e trizio a temperature elevatissime (100 milioni di gradi) per tempi sufficientemente lunghi. A temperature molto alte le singole particelle di un gas tendono a dissociarsi negli elementi costitutivi (ioni ed elettroni) e il gas si trasforma in una miscela di particelle cariche, cioè un plasma che è il principale costituente delle stelle e del sole. Nel sole, che ha una temperatura interna di 14 milioni di gradi, la reazione di fusione di nuclei di idrogeno (reazione protone-protone) è responsabile di gran parte dell'energia che giunge fino a noi sotto forma di calore e di luce. Per ottenere la reazione di fusione, il plasma di idrogeno deve esser confinato in uno spazio limitato: nel sole questo si verifica ad opera delle enormi forze gravitazionali in gioco. Per ottenere in laboratorio la fusione controllata, con un bilancio energetico positivo, è necessario riscaldare un plasma di deuterio-trizio a temperature molto più alte (100 milioni di gradi), mantenendolo confinato in uno spazio limitato per un tempo sufficiente a che l'energia liberata dalle reazioni di fusione possa compensare sia le perdite, sia l'energia usata per produrlo. A temperature così elevate il problema diventa come confinare il plasma: non esistendo in natura recipienti che possano resistere in queste condizioni si deve ricorrere al confinamento magnetico. Le particelle sono costrette a seguire traiettorie a spirale intorno alle linee di forza del campo mantenendosi lontano dalle pareti del recipiente: il plasma caldo è racchiuso in una camera a vuoto, e una opportuna configurazione di campi magnetici esterni e/o prodotti da correnti circolanti nel plasma impedisce il contatto con le pareti. Il tokamak è un esempio di recipiente per il plasma: è un dispositivo di forma toroidale caratterizzato da un involucro cavo, la "ciambella", in cui il plasma è confinato mediante un campo magnetico con linee di forza a spirale. La Roadmap europea verso l'elettricità da fusione prevede per la seconda metà del secolo la realizzazione del primo reattore che immetta energia elettrica nella rete.

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