La Cina continuerà «ad aprirsi, perché nessuno può chiudersi. Il percorso davanti a noi è arduo, ma raggiungeremo la destinazione». E’ il messaggio del presidente cinese, Xi Jinping, che oggi ha presentato i nuovi leader del Comitato Permanente del Politburo, il vertice del Partito Comunista Cinese. «Non saremo spaventati da pericolose tempeste», ha detto Xi, in un passaggio del suo discorso, trasmesso dall’emittente televisiva statale China Central Television. «Avremo sempre il sostegno del popolo e continueremo il duro lavoro per l’aspirazione di una vita migliore», ha aggiunto.
Xi Jinping, dal 2012 al vertice del Partito Comunista Cinese, e «fulcro» dell’intero partito, si è costruito l’immagine di leader forte - in rottura con i suoi diretti predecessori, Jiang Zemin e Hu Jintao - con un accentramento del potere su di sè e un’elevazione del suo status rispetto ai suoi più stretti collaboratori. Il suo pensiero è entrato a fare parte della Costituzione del Pcc a soli cinque anni dall’inizio del suo mandato, e la sua leadership, che sembra non conoscere oppositori, viene fatta coincidere con la fine della gestione collettiva del potere da parte del Comitato Permanente del Politburo, la cerchia ristretta dei più alti dirigenti politici di Pechino, di cui egli stesso fa parte. L’allontanamento dell’ex presidente cinese, Hu Jintao, dall’aula della Grande Sala del Popolo, alla chiusura del Congresso, sembra un ulteriore segnale che Xi ha messo una pietra tombale su quell'epoca. Il sogno del grande rinnovamento nazionale, concetto da lui introdotto nel 2012, si è accompagnato alla repressione del dissenso e all’aumento della sorveglianza e del controllo sociale, a cui si sono aggiunte, dall’inizio del 2020, le rigide linee anti-pandemiche della tolleranza zero verso il virus che hanno contribuito ad affossare l’economia e che hanno esasperato milioni di cittadini in tutta la Cina.
I cambiamenti nella Cina di Xi sono cominciati subito dopo l’inizio del suo primo mandato al vertice del partito, carica da cui deriva il suo potere, con la campagna contro la corruzione: a dieci anni da quando la indisse, la Commissione Centrale per l’Ispezione Disciplinare, ha confermato un funzionario proprio nei giorni scorsi, ha indagato su oltre 4,6 milioni di funzionari del partito (che conta più di 96 milioni di iscritti, all’ultimo aggiornamento).
ECONOMIA: LUCI E OMBRE
Lo scorso anno, Xi ha dichiarato raggiunto il primo obiettivo del centenario, ovvero quello di una «società moderatamente prospera», da raggiungere proprio in vista dei cento anni dalla fondazione del Partito Comunista Cinese (1921). Nei dieci anni da quando Xi ha assunto il potere, la Cina ha rivendicato di avere eliminato la povertà estrema dalle zone rurali, e si pone come modello per i Paesi in Via di Sviluppo, di cui si erge a capofila. L’enfasi è andata alla lotta alle speculazioni immobiliari e al contrasto ai rischi finanziari, ma la crisi del colosso del real estate, Evergrande, indebitato per oltre trecento miliardi di dollari e il boicottaggio dei mutui della scorsa estate, sono stati gli ultimi due campanelli d’allarme per la tenuta del sistema finanziario. I dieci anni dall’inizio del mandato di Xi al vertice del Pcc sono stati scanditi da un aumento del controllo del partito sull'economia e del potere decisionale di Xi sulle questioni economiche, tradizionalmente affidate alla gestione del primo ministro: la crescita cinese ha rallentato e oggi deve fare i conti con le restrizioni anti-Covid che hanno contribuito ad affossare l’economia, ai livelli più bassi dal 2020 nel secondo trimestre di quest’anno, e a fare salire la disoccupazione, soprattutto giovanile, nelle aree urbane. Per il futuro, la Cina punta, nel lungo termine, al raggiungimento di una «prosperità comune», mossa che appare una manovra per riportare più saldamente sotto il controllo politico i grandi nomi dell’industria cinese, a cominciare dai giganti di internet.
TECNOLOGIA, INNOVAZIONE E SORVEGLIANZA
La Cina è «un grande innovatore», ha detto Xi all’apertura del Congresso, e l’innovazione è «l'anima che guida il progresso di una nazione». I dieci anni da quando Xi è al vertice della Cina sono stati segnati dai cambiamenti tecnologici, e dall’espansione dei colossi di internet, a cominciare da TenCent, che gestisce la super-app WeChat, e dal colosso dell’e-commerce Alibaba. Proprio i due gruppi guidati da Pony Ma e Jack Ma sono finiti nel mirino della stretta avviata da Pechino lo scorso anno, culminata con una multa record dell’anti-trust per Alibaba. Negli ultimi dieci anni è aumentato anche il controllo sulla popolazione: oltre la metà delle videocamere di sorveglianza installate al mondo nel 2019 sono state installate in Cina, il 54% del totale, secondo stime di Ihs Markit. Il controllo si è accentuato con l’arrivo del Covid-19, tramite l’applicazione sanitaria della super-app WeChat, essenziale per entrare nei luoghi pubblici. Nel frattempo, la Cina ha scalato posizioni nella ricerca spaziale, inviando una propria sonda su Marte, terzo Paese a farlo dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, e nella ricerca sull'intelligenza artificiale.
DIRITTI UMANI: UIGURI NEL MIRINO
Le accuse di detenzioni di massa, torture, e sorveglianza diffusa ai danni dell’etnia degli uiguri, nella regione autonoma nord-occidentale dello Xinjiang, hanno accompagnato i dubbi sulla natura autoritaria della «nuova era» di Xi. La Cina ha sempre smentito le estese violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione autoctona dello Xinjiang, di fede musulmana e lingua turcofona, nonostante diverse inchieste giornalistiche, immagini satellitari, documenti di cui sono entrati in possesso accademici e studiosi, rapporti ritenuti credibili dalle Nazioni Unite e altre fonti aperte abbiano documentato la repressione che Pechino ha compiuto in nome della lotta ai «tre mali» del terrorismo, del separatismo e dell’estremismo religioso. Oltre un milione di uiguri si stima siano detenuti in campi di detenzione, simili a volte a carceri di massima sicurezza, che Pechino definisce «centri di trasformazione vocazionale» per il reinserimento nella società di sospetti estremisti. Nella repressione è coinvolto anche il Tibet, con un programma, in vigore anche nello Xinjiang, di trasferimento delle popolazioni per lavori forzati, e proteste contro i programmi del governo centrale sono avvenute, sporadicamente, anche in Mongolia Interna. Nel corso degli anni, la repressione ha preso di mira anche vari settori della società civile, dai movimenti femministi, agli avvocati per i diritti umani, fino ai blogger che nel 2020 avevano documentato le falle nella gestione del focolaio di Covid-19 a Wuhan.
LA REPRESSIONE A HONG KONG
Un capitolo a parte lo merita Hong Kong, su cui Pechino ha imposto una legge sulla sicurezza nazionale, condannata dall’Occidente, che ha spento i movimenti pro-democrazia animatori delle marce e delle proteste del 2019, la più grande sfida a Pechino dal ritorno del territorio al controllo cinese: la modifica della legge elettorale, entrata in vigore nei mesi scorsi, ha poi assicurato alla Cina che «solo i patrioti» possano governare Hong Kong, e ha eliminato dall’Assemblea Legislativa, il mini-parlamento della città, i rappresentanti dei movimenti democratici dell’ex colonia britannica, vietando loro di correre per un seggio con un processo di screening dei candidati. Oltre 10 mila persone sono state arrestate per il coinvolgimento nelle proteste del 2019, 196 delle quali devono rispondere di violazioni alla sicurezza nazionale. Funzionari cinesi e di Hong Kong, tra cui l’attuale capo esecutivo della città, John Lee Ka-chiu, sono stati sanzionati dagli Usa per la repressione contro i movimenti pro-democrazia della città, e la Gran Bretagna ha accusato Pechino di avere violato i patti del 1984, con cui Londra ha deciso il ritorno alla Cina della colonia britannica. Pechino difende le mosse fatte su Hong Kong, passata «dal caos alla governance», ha detto Xi domenica scorsa, ed elogia il modello «un Paese, due sistemi» con cui la regione amministrativa speciale si rapporta al governo centrale - ormai considerato privo di significato dall’ex potenza coloniale e dall’Occidente - modello che peraltro Pechino vuole estendere anche a Taiwan.
TOLLERANZA ZERO: LA LINEA ANTI-PANDEMIA
Dallo scoppio del primo focolaio noto di Covid-19, a Wuhan, la Cina ha adottato una politica di tolleranza zero verso il virus, che difende ancora oggi come «efficace» e «poco costosa», nonostante l’impatto sociale ed economico delle misure messe in atto. «Grazie alla politica dello «zero Covid» abbiamo salvato vite umane», ha detto Xi nel suo discorso di apertura del Congresso, domenica scorsa. Le chiusure dei confini hanno cambiato il modo di interazione della Cina con il resto del mondo: molti, tra uomini d’affari, studenti e altre categorie che si trovavano in Cina per lavoro allo scoppio del focolaio di Wuhan, hanno deciso di lasciare il Paese, in quasi tre anni di restrizioni. I viaggi d’affari si sono drasticamente ridotti, viste le restrizioni in atto sugli spostamenti. E', però, sul piano interno che le linee anti-pandemiche hanno colpito più duramente, con un controllo sempre più stretto e i lockdown improvvisi che hanno messo in ginocchio aziende e milioni di cittadini: il caso più eclatante è quello di Shanghai, sottoposta a due mesi di lockdown nella primavera scorsa, dove all’esasperazione sociale si è aggiunto il contraccolpo economico. I danni provocati dalle linee adottate non hanno, però, fatto retrocedere Xi e la leadership dal perseguimento del contrasto frontale al virus, che proseguirà, secondo parole dello stesso Xi, «fino alla vittoria finale».
LA DIPLOMAZIA: SOVRANITA', TAIWAN E TENSIONI CON GLI USA
I rapporti sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin, la coercizione economica, diplomatica e militare su Taiwan per accelerarne la «riunificazione», anche con la forza, alla Repubblica Popolare Cinese - nonostante Taipei non sia mai stata sotto il controllo della Cina dal 1949 - e il deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti e l’Occidente sono stati tra i capitoli più controversi della politica estera del presidente cinese. A questi si accompagna un’opera di modernizzazione delle Forze Armate che ha portato la Cina a disporre, oggi, di tre portaerei e della prima base navale al di fuori dei confini nazionali, a Gibuti, inaugurata nel 2017. Ci sono, poi, le dispute territoriali e l’enfasi posta sulla difesa della sovranità a scandire la politica estera di Xi. A fare le spese della postura sempre più assertiva di Pechino sono stati i Paesi litoranei del Mare Cinese Meridionale, in particolare le Filippine e il Vietnam: isole disabitate e atolli contesi con altri Paesi sono stati riconvertiti a basi militari da Pechino, che li rivendica come parte integrante del proprio territorio nazionale, e su cui non è disposta a cedere di «nemmeno un centimetro», secondo parole pronunciate dallo stesso Xi. Durante i suoi due mandati al vertice del partito e dello Stato, sono riprese anche le dispute sul vasto territorio di confine himalayano con l’India, sfociate in sanguinose battaglie nella valle di Galwan, nel giugno 2020, dove persero la vita, negli scontri più accesi degli ultimi quarant'anni, sia soldati indiani che cinesi. Il mandato di Xi al vertice del partito è cominciato, poi, tra le tensioni con il Giappone per le isole Senkaku, che la Cina chiama Diaoyu, in una disputa che non è ancora risolta. Durante la «nuova era» di Xi si è trasformata anche la diplomazia, che ha adottato toni più perentori che in passato, sulle questioni che riguardano la sovranità nazionale: è lo «spirito battagliero» elogiato proprio nei giorni del ventesimo Congresso del partito dal vice ministro degli Esteri, Ma Zhaoxu, che non prevede compromessi su quelli che Pechino considera «interessi fondamentali» per la Cina e il suo sviluppo. La proiezione di Pechino all’estero è passata, infine, anche attraverso l’iniziativa di sviluppo infrastrutturale Belt and Road, la Nuova Via della Seta, lanciata da Xi nel settembre 2013. Sono 149 i Paesi, tra cui l’Italia nel 2019, che hanno aderito all’iniziativa, sotto scrutinio internazionale per il rischio della trappola del debito e per l’aumento dell’influenza cinese in Africa, Asia e Sudamerica. Secondo stime del centro di ricerca statunitense AidData, citate dalla Cnn, l’entità dei finanziamenti cinesi si aggira attorno agli 85 miliardi di dollari all’anno, nonostante le critiche all’iniziativa, entrata nel decimo anno dal lancio.
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