Lunedì 23 Dicembre 2024

Negli Usa monta il dissenso interno su Israele, Biden nel mirino. Video shock della soldatessa rapita, "morta in un raid"

Noa Marciano

Monta la fronda nell’amministrazione Biden per il sostegno a Israele e la contrarietà al cessate al fuoco a Gaza, mentre gli Usa si scoprono sempre più polarizzati sul conflitto. I moniti, le critiche e il pressing del presidente verso il premier Benyamin Netanyahu non bastano a placare il crescente dissenso tra i ranghi dell’esecutivo, dal dipartimento di Stato a quello della Giustizia, dall’Fbi al Consiglio per la sicurezza nazionale. In gioco c'è anche una massa di voti della sinistra progressista e della comunità arabo-musulmana - tradizionalmente filo dem - che possono venir meno al commander in chief nelle prossime elezioni. L’ultima bordata arriva da una lettera di protesta firmata da oltre 400 esponenti di nomina politica e membri dello staff di circa 40 agenzie governative. «Sollecitiamo il presidente Biden a chiedere urgentemente un cessate il fuoco e una de-escalation dell’attuale conflitto garantendo l’immediato rilascio degli ostaggi israeliani e dei palestinesi detenuti arbitrariamente; il ripristino di acqua, carburante, elettricità e altri servizi di base; e il passaggio di adeguati aiuti umanitari alla Striscia di Gaza», si legge nella lettera, firmata anche da dirigenti che hanno aiutato il leader dem ad essere eletto nel 2020. «La stragrande maggioranza degli americani sostiene un cessate il fuoco», prosegue la missiva, citando un sondaggio di ottobre secondo cui il 66% degli americani, compreso l’80% dei democratici, ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero esercitare pressioni su Israele per una tregua. «Inoltre, gli americani non vogliono che le forze armate americane vengano coinvolte in un’altra guerra costosa e insensata in Medio Oriente», si legge ancora. La lettera segue un burrascoso incontro il 23 ottobre all’Eisenhower Executive Office Building, dove 70 incaricati politici musulmani e arabi si sono lamentati con alti esponenti della Casa Bianca, tra cui il chief of staff Jeffrey D. Zients e Doug Emhoff, il marito (ebreo) della vicepresidente Kamala Harris, riferendo delle pressioni subite da familiari e amici per dimettersi. Il dissenso su Gaza riflette anche un divario generazionale e proviene principalmente da dipendenti tra i 20 e i 30 anni, benché non manchino dirigenti anziani tra i sottoscrittori dei documenti di dissenso. La missiva è l’ultima di una serie di iniziative di protesta in seno all’amministrazione. Come le dimissioni di un dirigente del dipartimento di Stato, contrario al «cieco sostegno di parte» e all’invio di armi a Israele. O la lettera aperta firmata da oltre 1.000 dipendenti dell’agenzia americana per lo sviluppo internazionale (Usaid). O, ancora, i tre memo interni firmati da decine di dipendenti di Foggy Bottom e inviati al segretario di Stato Antony Blinken tramite il 'Dissent channel', il canale aperto durante la guerra del Vietnam per consentire ai diplomatici di esprimere disaccordi sulle politiche Usa senza il rischio di ritorsioni. Serve un cessate il fuoco e criticare Israele anche pubblicamente, è il loro monito. «So che per molti di voi la sofferenza causata da questa crisi sta costando molto a livello personale, vi ascoltiamo, quello che condividete sta definendo la nostra politica e i nostri messaggi», ha risposto Blinken. Nel frattempo però un’associazione di New York, il Center for Constitutional Rights (Ccr), ha fatto causa in California a Biden accusandolo di non aver adempiuto al suo dovere, in base alle leggi internazionali e americane, di impedire a Israele un genocidio a Gaza. La richiesta è di vietare agli Usa di fornire armi, soldi e sostegno diplomatico all’alleato mediorientale.

Hamas posta le immagini di Noa viva, poi ne mostra il cadavere

Un momento di esitazione mentre pronuncia il nome dei suoi genitori davanti alla telecamera, poi prosegue a leggere il testo: «Mi trovo a Gaza, tutta Gaza è bombardata, sono qui già da quattro giorni e ci sono altri ostaggi. Potremmo morire a causa dei missili, per favore fermatevi. Le esplosioni sono vicine a noi». L’11 ottobre probabilmente Noa Marciano, soldatessa israeliana di 19 anni rapita da Hamas trentanove giorni fa, era consapevole di scandire la sua stessa condanna a morte. E infatti nel video al volto smarrito con la bandiera delle brigate di al-Qassam alle spalle seguono le immagini del suo cadavere disteso su un telo insanguinato. Hamas ha sostenuto che la giovane soldatessa è stata uccisa in un attacco aereo giovedì scorso ma l’esercito israeliano, che ne ha confermato la morte, ha aperto un’indagine sulle cause, definendo filmati come questo «forme inumane di terrorismo psicologico». Anche stavolta peraltro il video non è stato trasmesso dai media del Paese. Noa Marciano, vedetta dell’esercito in una base vicino al kibbutz Nahal Oz, è stata ripresa dai terroristi durante la prigionia quattro giorni dopo essere stata portata via il 7 ottobre: un filmato girato poche ore prima del suo compleanno, il 12 di quello stesso mese. Era di Modin, una città a 35 chilometri a sud di Tel Aviv, e prestava servizio nel corpo di raccolta di informazioni di combattimento del 414/o reggimento. Da oltre un mese il suo viso, che in tanti ricordavano senza neppure conoscerla, era presente ovunque per le strade di Israele, sui manifesti, assieme a quelli degli altri ostaggi: una ragazza con gli occhialoni rotondi, che svela il suo apparecchio dentale in un grosso sorriso. Nel filmato, invece, ci sono le ultime immagini di lei con i capelli raccolti e un vestito verde, probabilmente ciò che indossava il giorno del suo rapimento. Non è il primo filmato girato dai terroristi in questa nuova guerra. Pochi giorni fa la Jihad islamica aveva diffuso il video di altri due ostaggi che chiedevano al governo israeliano di fermare i bombardamenti su Gaza, con un messaggio letto dai rapiti in cui si addossava la responsabilità di quanto sta accadendo al premier Benyamin Netanyahu. Nelle clip comparivano Hanna Katzir, di settantasette anni, sulla sedia a rotelle, e Yagil Yaacov, di tredici, entrambi rapiti nel kibbutz di Nir Oz durante lo stesso attacco e trascinati a Gaza. Per Yaacov, che soffre di un’allergia alle arachidi potenzialmente letale, erano stati lanciati diversi appelli affinché venisse visitato urgentemente da rappresentanti della Croce Rossa per la somministrazione di epinefrina iniettabile. Ma al momento, nonostante gli annunci dei miliziani, il rilascio per «ragioni umanitarie e mediche» non è ancora avvenuto. In queste ore, invece, è arrivato il messaggio della giovane soldatessa Noa che non lascia speranze: l’esercito ne ha verificato il decesso «sulla base di informazioni di intelligence». Sua madre, Adi, le aveva parlato per l’ultima volta poco prima che venisse rapita: «Mi aveva detto che si trovava in un luogo protetto e che c'era stata un’infiltrazione. Poi aveva dovuto riagganciare. Non avevo sentito spari o urla. Mezz'ora dopo le avevo mandato un messaggio, ma lei non ha più risposto», aveva raccontato in un’intervista. In uno dei suoi ultimi appelli lanciati all’inizio di novembre diceva: «Potrebbe essere senza occhiali. Temo che potrebbero farle del male. Ha solo diciannove anni, cos'è successo? Come madre, sento che è viva ma chiede aiuto». Oggi gli agenti dell’Idf, che hanno raggiunto la famiglia di Noa, hanno comunicato ufficialmente la morte.

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