«Sappiamo che alcuni bambini rapiti da Hamas sono stati abusati sessualmente. Non sono tra i piccoli che abbiamo in cura noi qui, si trovano in un’altra delle strutture mediche che hanno preso in carico gli ostaggi minorenni dopo il rilascio». Ne parla in un’intervista all’ANSA Omer Niv, vice direttore e pediatra dello Schneider children's medical center, il maggiore ospedale pediatrico di Israele e del Medio Oriente, dove sono in cura 19 piccoli ostaggi rilasciati dopo 50 giorni di prigionia a Gaza. «Sono come fantasmi. Soffrono di una depressione grave in misura mai vista prima, sono tristi, camminano lentamente, non vogliono uscire dalla stanza, scoppiano a piangere se vedono un estraneo, hanno paura, masticano il cibo lentamente, temono ogni rumore», racconta Niv. Abigail, Raz, Aviv, Yuval, Emilia, Ofri e tutti gli altri bambini strappati alla loro infanzia sono riemersi da Gaza senza punti di riferimento a cui aggrapparsi: le loro case sono state bruciate, i lettini non ci sono più, giocattoli e libricini ingoiati dalla distruzione che Hamas e Jihad si sono lasciati alle spalle il 7 ottobre. Niv non nasconde le difficoltà che gli stessi team di specialisti stanno incontrando nel curare i piccoli pazienti, dice chiaramente che stanno andando avanti per tentativi, elaborando un metodo per ciascun bambino tornato: "Non ci sono nella letteratura scientifica esempi in cui bambini piccoli, di 2, 3, 4 anni siano stati rapiti, tenuti in luoghi claustrofobici, in condizioni igieniche estreme, separati dai loro genitori, nutriti a malapena, torturati con false notizie come la morte di papà e mamma anche se non era vero, con la storia che Israele non esiste più e nessuno sarebbe andato a salvarli. Non c'è mai stata una terapia per questi danni. Perché non era mai successo niente del genere nella storia dell’umanità», ammette il pediatra. «Con psichiatri, psicologi, medici di diverse specializzazioni, sociologi, affrontiamo i bambini uno per uno. In un certo senso ci sentiamo impotenti. Una madre con due bambine di 3 anni è con noi già da una settimana, dal momento del rilascio. Vogliono restare qui: la loro casa è stata data alle fiamme in un kibbutz, il papà è rimasto in ostaggio a Gaza, non vogliono uscire», spiega. «Che cosa posso dire a una bambina di 3 anni che ha visto il padre rimanere prigioniero, la madre che piange perché rivuole il marito. I bambini piccoli non riescono a raccontare quello che provano, si chiudono, non dormono, alcuni non hanno un’idea del tempo, non sanno quanto sono rimasti prigionieri, sono stati spostati da un posto all’altro, non sappiamo dove», si avvilisce Niv. «Abigail ha 4 anni, i terroristi le hanno ucciso i genitori davanti ai suoi occhi. Lei è riuscita a correre via, si è rifugiata in casa dei vicini, ma poi è stata portata a Gaza con una donna e i suoi tre figli. E’ rimasta senza nessuno dei suoi parenti stretti, papà e mamma morti, senza poter gridare, singhiozzare, lavarsi semplicemente i denti... Come dobbiamo curare questa bambina? In certi momenti ci sentiamo impotenti», dice Niv abbassando la voce di fronte a un dramma così schiacciante, «non sappiamo come sarà la loro situazione mentale domani, tra anni. Ci vorrà molto tempo». «Questi bambini probabilmente avranno bisogno di essere curati per tutta la vita», riconosce il vice direttore dello Schneider.