
La tensione tra le due potenze nucleari era cresciuta sensibilmente nel corso delle ultime settimane, da quando il 22 aprile un commando di uomini armati aveva aperto il fuoco contro un gruppo di indiani a Phalgam in Kashmir, uccidendone 26. Da allora, le accuse di New Delhi, che ritiene Islamabad responsabile dell’attentato, si sono alternate a reciproche rappresaglie diplomatiche e minacce militari, incluse violazioni della tregua lungo la Linea di Controllo che delimita di fatto il confine nella regione contesa. Fino alla decisione dell’India di attaccare, alle prime ore dell’alba, "siti terroristici» in Pakistan, lanciando l’Operazione Sindoor, in omaggio alle vedove di Phalgam.
Almeno 45 persone sono morte da entrambe le parti: Islamabad denuncia 31 vittime civili, compresi bambini, e decine di feriti nei raid aerei. Mentre l'India ha affermato che circa 15 persone sono morte nei bombardamenti del Pakistan.
Il premier del Pakistan, Shehbaz Sharif, ha accusato l’India di aver condotto attacchi «vigliacchi» e rivendicato di avere "tutto il diritto di rispondere con la forza a questo atto di guerra», mentre il capo del governo indiano Narendra Modi ha rinviato un viaggio previsto in Europa. Si tratta del più grave scontro tra i due Paesi negli ultimi 20 anni, che agita la comunità internazionale, con accorati appelli alla moderazione a entrambe le parti ad evitare «la guerra totale».
L’escalation è scattata nella notte tra martedì e mercoledì quando New Delhi ha annunciato attacchi missilistici contro nove siti che ospitano «infrastrutture terroristiche» situate sul territorio pachistano «da dove venivano organizzati e diretti gli attacchi contro l’India», ha affermato il governo in una breve dichiarazione. Il Pakistan ha poi reso noto che 24 raid aerei hanno preso di mira sei località, tra il Kashmir e il Punjab, la provincia più popolosa del Paese al confine con l'India, e affermato di aver abbattuto 5 jet indiani. L’esercito indiano ha a sua volta accusato le forze pachistane di aver lanciato «colpi d’artiglieria a Bhimber Gali, nell’area di Poonch-Rajauri», oltre la linea di demarcazione in Kashmir.
«Giustizia è fatta», ha esultato in un video su X l’esercito indiano, sottolineando di aver condotto «un’azione concentrata, misurata e priva di intenzioni di escalation», assicurando di non aver preso di mira «nessuna struttura militare». Ma per il Pakistan uno dei raid aerei indiani ha colpito una moschea di Subhanullah, nel distretto di Bahawalpur nel Punjab - ritenuta dall’intelligence indiana collegata ai gruppi armati del Kashmir -, uccidendo «13 civili tra due bambine di tre anni». Secondo fonti locali, nei raid sul Punjab sarebbero in effetti stati uccisi almeno quattro stretti collaboratori e 10 familiari - tra cui la sorella, il cognato, i nipoti e 5 bambini - di Maulana Masood Azhar, fondatore del gruppo terroristico Jaish-e-Mohammed (JeM), responsabile di diversi attacchi di alto profilo in India, tra cui l’attentato al Parlamento indiano del 2001 e l'attentato suicida di Pulwama del 2019, in cui morirono oltre 40 paramilitari indiani.
«C'è il rischio di una guerra totale», ha avvertito la Turchia, alleata del Pakistan, condannando «tali azioni provocatorie e gli attacchi contro i civili e le infrastrutture civili». Da Washington a Bruxelles fino a Mosca, si moltiplicano gli appelli internazionali alla de-escalation. Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha esortato India e Pakistan a "disinnescare» la crisi, mentre il Cremlino ha espresso «estrema preoccupazione» invitando le parti a «ricorrere rapidamente a negoziati per risolvere i contrasti». A farsi avanti nel ruolo di possibile mediatore, è la Cina, Paese confinante dalle relazioni più tese con l’India ma una solida partnership con il Pakistan. Così come il premier britannico, Keir Starmer ha lanciato un appello equidistante per incoraggiare il «dialogo, la de-escalation e la protezione dei civili» ai due Paesi del Commonwealth, definendo la crisi «motivo di seria preoccupazione per molti in tutta la Gran Bretagna».
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