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Oggi il centenario della nascita di Piazzolla, figlio ribelle e geniale del tango

Tutto il mondo celebra il compositore che fu portatore di una vera e propria rivoluzione, inizialmente incompresa, e oggi è nel pantheon dei più grandi di sempre

Adios, Nonino. Astor Piazzolla, musicista geniale e rivoluzionario, morì nel 1992 a Buenos Aires

Qualsiasi tanguero ve lo dirà: noi non balliamo Piazzolla, ma lo portiamo nel cuore. I milongueri “antichi”, quelli che ballano il tango coi suoi rituali consolidati, i “codigos”, i codici della milonga, le mirade i cabecei la ronda, non ballano spesso le musiche di Astor Piazzolla, anzi quasi mai: è più repertorio da “tangonuevisti”, stili più “acrobatici” e “da scenario” che non entrano facilmente nelle milonghe. Ma il miracolo è avvenuto, e la musica più accogliente, eppure più conservativa, del mondo lo ha accolto nel suo pantheon, accanto ai Maestri della “guardia vieja”, da Gardel in giù, per gli anni Quaranta e Cinquanta, e nel pantheon ancora più ristretto dei grandi bandoneonisti, accanto a Troilo “El Gordo”, nella cui orchestra suonò.

Piazzolla è, semplicemente, imprescindibile, e questo lo sanno tutti, nel mondo del tango, che sembra sempre così uguale a se stesso – in fondo, in gran parte delle milonghe di tutto il pianeta si ballano musiche che sono state scritte per lo più nella prima metà del secolo scorso... – eppure ha attraversato morti e rinascite, periodi di cattività e nuove fioriture, contrazioni e rivoluzioni (un poco come il contrarsi ritmico del bandoneón, il mitico “fuelle”, il mantice, lo strumento che respira e piange come un essere umano). E Piazzolla è stato al centro di una delle più grandi e recenti rivoluzioni. Lo hanno accusato di fare “altro”, di contaminare con altra musica, con altri strumenti il corpo originario del tango, e capite bene che è un’accusa assurda, visto che il tango è da sempre una creatura composita e meticcia, nata dalla confluenza di mille tradizioni e nostalgie differenti, in quella sorta di Lampedusa del mondo che era Buenos Aires all’inizio del Novecento.

Piazzolla, l’argentino con un po’ d’Italia nelle vene (come moltissimi grandi musicisti e ballerini argentini: tutti “tani”, in lunfardo, sineddoche per “napoletani”, sineddoche per “italiani”, che da dovunque vengano sono parte del Sud del mondo, quello delle passioni e delle nostalgie feroci) ha aggiunto un altro pezzo alla storia del tango come musica che tutte le musiche può ripercorrere, tutti gli strumenti può tentare, tutte le formule può sovvertire.

Ogni ballerino lo sa, e se pure di solito si muove al ritmo di Juan D’Arienzo, Osvaldo Fresedo o Osvaldo Pugliese, riconosce immediatamente le prime tre note di qualsiasi composizione di Piazzolla, e le considera una sorta di intimo inno nazionale di una cosa che non ha una nazione ma le ha tutte.
E l’augurio al tango – che per ora “està muerto”, tace in tutto il mondo, spenti gli abbracci, vietate le milonghe, chiusi i teatri – è che l’anno di Piazzolla lo veda risorgere, come ha sempre fatto. Libertango a tutti noi.

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