Domenica 24 Novembre 2024

Noi e le Parole: il linguaggio di genere tra grammatica e etica, risponde "DICO"

"Avremo vinto  quando la nomina di una donna non farà più notizia". Parole di Margherita Cassano, appena eletta all’unanimità del CSM presidente della Corte di Cassazione - prima donna a ricoprire la carica - che le pronunciò già nel 2020, quando ne divenne la prima vicepresidente aggiunta. Italia, 2023: una donna presidente del Consiglio - Giorgia Meloni, a capo del partito di maggioranza, così come la neoeletta al vertice dell’opposizione, Elly Schlein -   femminile la guida del CNR (Maria Chiara Carrozza) e dei supremi organi di giustizia, Cassazione - come detto, Margherita Cassano - e Corte Costituzionale (Silvana Sciarra, dopo Marta Cartabia e Fernanda Contri). E poi l’Europa: il Parlamento (Roberta Metsola), la Commissione (Ursula von der Leyen) , la BCE (Christine Lagarde), il CERN (Fabiola Gianotti). Davvero, è tempo che  non faccia più notizia. Superata l’elencazione de “le prime donne che...” è tempo, dunque, di passare avanti, alla seconda, alla terza... e così via... Evidenziando che il merito - scevro da “quote rosa” e da ostacoli al suo concreto riconoscimento - si basa sulla competenza, e non sul genere. E, soprattutto, evidenziando la necessità di una terminologia corretta, grammaticalmente e eticamente. Definire una donna con un appellativo al femminile non è femminismo, ma ordinarietà, grammaticale e etica. La sensibilità è mutata, determinando la necessità di un codice linguistico che ormai, in epoca gender fluid, non sia più  improntato alla prevalenza del “genere non marcato” o “dominante”, che governa anche regole grammaticali superate, come quella del maschile inclusivo.   E in questo la scuola, e in generale il comparto dell'istruzione, ha un ruolo determinante, cogliendo nei processi di alfabetizzazione funzionale dei più giovani anche il desiderio di accoglienza globale che proviene da studentesse e studenti (e che ogni settimana trova voce anche sull'inserto di Gazzetta del Sud Noi Magazine), nel promuovere una nuova narrazione e un reale equilibrio di genere innanzitutto con le parole. Che fanno bene, ma anche molto male. Necessario, dunque, insegnare realmente a chiamare cose e persone con il loro nome. Per riconoscerle e, soprattutto, rispettarle.   NOI E LE PAROLE - SPECIALE A questa riflessione abbiniamo una puntata speciale della nuova rubrica “Noi e le Parole” dell'inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud, in collaborazione con il portale DICO - Dubbi sull’Italiano e Consulenza Online dell’Università di Messina. A rispondere è  il prof. Fabio Rossi, ordinario di Linguistica italiana, e ideatore del servizio gratuito di consulenza offerto da Unime.   1) Il genere femminile nelle professioni Qual è la regola da adottare per la declinazione corretta del genere nelle professioni? Perché secondo lei ancora oggi nel linguaggio scritto e orale, nonostante non sia grammaticalmente corretto, alcune professioni vengono mantenute al maschile anche se si riferiscono a una donna e perché, secondo lei, molti continuano ad affermare che la declinazione al femminile "suona male”? Da decenni si punta il dito contro il sessismo nella lingua italiana (rilevabile anche nel fatto che ad esempio il femminile di alcuni sostantivi, come maestra, segretaria, comunica un significato percepito come riduttivo rispetto all'omologo maschile) quindi come mai ancora questo atteggiamento linguistico, del qualificare una donna con un costrutto al maschile,  non è stato superato, benché comporti un evidente errore grammaticale? - «Dal punto di vista strettamente grammaticale non v’è alcun dubbio che i nomi mobili debbano essere flessi al femminile, se riferiti a una donna. Quindi, come nessuno definirebbe mai Mina “un cantante”, né avrebbe mai chiamato la regina Elisabetta II “il re d’Inghilterra”, altrettanto nessuno dovrebbe mai rivolgersi a una direttrice d’orchestra chiamandola “Maestro”, né a un’architetta chiamandola architetto, e lo stesso valga per le avvocate, le carabiniere, le assessore, le soldate ecc. Per i nomi di genere comune (che richiedono il solo cambiamento dell’articolo, non della desinenza), “la presidente Meloni” è l’unica forma corretta, mentre scorretto è “il presidente Meloni”. L’osservazione che ci si rivolga alla carica e non alla persona non  tiene per due ragioni: 1) perché nessuno ha mai considerato la carica di “re” parlando di Elisabetta II (ovvero: le cariche sono soggette a chi le ricopre, e se a ricoprirle è una donna la grammatica italiana impone l’accordo al femminile, e non al maschile; in italiano il genere neutro non esiste); 2) se la carica viene avvertita come “neutra” (impropriamente) e quindi declinata al maschile è perché il maschile viene avvertito come genere non marcato proprio perché fino a pochi anni fa certe cariche sono state assunte soltanto, o prevalentemente, da uomini. Non è un caso che la cantante e la regina non scandalizzino nessuno, dal momento che da millenni esistono sovrani e sovrane, cantanti maschi e femmine. Né ha alcun senso l’obiezione del “suona male”: suona male ciò che siamo meno abituati a sentire e la grammatica delle lingue non funziona in base all’eufonia». «Ciò detto, però, ancora una volta, nessuno può imporre dall’alto ai parlanti un comportamento, nessun intellettuale può arrogarsi il diritto di impedire ai/alle parlanti di utilizzare forme comunque previste dal sistema (sebbene, a rigore, abnormi) e pertanto nessuno può puntare il fucile alla tempia di Giorgia Meloni perché assuma l’articolo femminile, né alla direttrice Beatrice Venezi affinché si definisca “Maestra” (anche se la grammatica italiana lo richiederebbe). In quest’ultimo caso, non regge certo l’obiezione che maestra riguarda la scuola, mentre maestro (anche) la musica, perché questo cambiamento di significato non è certo motivato dalla grammatica, né dalla semantica della parola, bensì dalle abitudini sociali che hanno sempre considerato la direzione d’orchestra appannaggio prevalentemente maschile». «Abitudini sociali che, per fortuna, come tutto ciò che è sociale (come la lingua), stanno rapidamente mutando. Il fucile alla tempia no, non sia mai, ma una sana e civile argomentazione volta a dimostrare ai parlanti e alle parlanti il funzionamento della grammatica italiana si può (e secondo me si deve: ma sono parziale, dato il mio mestiere di linguista) fare. Spiace davvero che molte donne si sentano sminuite a esser chiamate avvocate, architette, ingegnere o commissarie: dovrebbero invece rendersi conto, e con orgoglio, che la loro dignità umana e professionale, il loro rivendicare a testa alta di avercela fatta in un mondo ancora su misura di maschio, passa anche per la morfologia, cioè per la visibilità delle parole. Perché le parole sono importanti, ci rappresentano, le parole siamo noi. Ci auguriamo quindi che la presidente Giorgia Meloni comprenda quanto potrebbe far risaltare il suo ruolo e, attraverso di esso, la rivoluzione epocale per la cultura italiana di avere finalmente, al governo, una (e non più sempre e solo un) presidente del consiglio dei ministri e delle ministre».   2) Il "maschile inclusivo", dal passato al futuro... già presente Cosa ne pensa della regola grammaticale del maschile inclusivo? Qual è la sua origine e la sua attualità oggi, alla luce di una mutata sensibilità sociale e quindi anche linguistica? Ci sono prospettive per una sua modifica, e in che termini ? E quale sarebbe eventualmente l'iter scientifico? In teoria, dal punto di vista strettamente linguistico-grammaticale, la risposta alla  domanda è molto semplice e poco si presta a equivoci e a polemiche: bisogna distinguere il genere grammaticale da quello naturale. Il secondo ovviamente impone il rispetto dell’accordo al maschile o al femminile a seconda che ci si riferisca a un referente di sesso maschile o femminile. Il primo (cioè il genere grammaticale) prevede invece, nella gran parte delle lingue del mondo, l’opzione della forma non marcata (ovvero quella maschile) per riferirsi a referenti di genere misto, cioè sia uomini sia donne nel caso del plurale, oppure se il genere dei referenti non viene specificato. Quindi, in parole povere: «gli studenti hanno tutti superato l’esame» (se ci si riferisce a studenti e a studentesse), oppure «ciascuno studente è tenuto a mostrare un documento di identità all’esame» (che può includere anche un’eventuale studentessa). Fin qui sembrerebbe tutto pacifico e rassicurante. Tuttavia le lingue sono uno strumento sociale: non esisterebbe alcuna lingua se non esistessero comunità di parlanti. Anzi, la lingua è lo strumento di socializzazione primario e direi per antonomasia, quello che distingue, cioè, gli esseri umani  dagli altri esseri viventi. In quanto inestricabilmente legata alla società, ogni lingua è mutevole nel tempo, nello spazio, negli usi sociali, nelle situazioni comunicative e a seconda del mezzo di comunicazione usato. Se ne era già resto conto con grande precisione Dante Alighieri, che ne parla nel De vulgari eloquentia. Stando così le cose,  inevitabile che cambino, col tempo e a seconda delle dinamiche sociali, non soltanto le parole, i costrutti, le forme e i contenuti, ma anche le regole, le norme e le idee sulla lingua. Per questo motivo, è difficile oggi assumere acriticamente il concetto di “genere grammaticale”, perché anche l’accezione di “maschile non marcato” (dove non marcato sta per “più frequente”, che meno si distanzia da un uso ritenuto “basico”) è tutt’altro che pacifica e innocente: è avvertito come non marcato perché per millenni è stato normale considerare i maschi come il metro di ogni misura umana e sociale e, viceversa, considerare le femmine soltanto in funzione dei maschi. È dunque normalissimo che oggi si metta in discussione l’uso del maschile sovraesteso e si preferiscano, per i due esempi fatti sopra, espressioni analoghe alla seguente: «gli studenti e le studentesse hanno tutti/e superato l’esame», «ciascuno/a studente/essa è tenuto/a a mostrare un documento di identità all’esame». Oppure, volendo includere anche le persone non binarie: «ciascunǝ studentǝ è tenutǝ a mostrare un documento di identità all’esame». Naturalmente moltissimi/e obietteranno che 1) il primo modo è prolisso e ridondante, perché costringe a specificare sempre il maschile e il femminile, 2) il secondo modo è scomodo perché introduce un segno estraneo al sistema ortografico italiano. Entrambe le obiezioni hanno ragioni più che valide, ma non risolvono il problema: ogni persona ha diritto di sentirsi rappresentata nella lingua e dunque nessuno/a può stabilire a priori chi debba o non debba essere incluso/a o escluso/a. Allora, si dirà, basterebbe fare una petizione da inviare a qualche organo influente per far cambiare le regole della grammatica italiana. Peccato (o, direi io, per fortuna) però che questo organo non esista. Non certo, come erroneamente in molti/e pensano, l’Accademia della Crusca, che si limita a osservare e studiare la realtà linguistica, non certo a dirigerne gli usi né a cambiare grammatiche e dizionari. I cambiamenti della lingua, solitamente molto lenti, avvengono collettivamente e, di solito, dal basso, non certo su spinta di un manipolo di intellettuali o accademici. Dubito che lo schwa (cioè il segno ǝ) attecchisca, almeno in tempi brevi, perché indurrebbe a un cambiamento radicale del sistema ortografico e morfologico (comunque possibile e non certo scandaloso, se accetto ai/alle più). Invece il primo stratagemma, cioè quello di porre sempre l’alternativa maschile/femminile, mi pare sia già in stato avanzato di accettazione. Mi rendo conto, però, che non risolva il problema della non rappresentatività delle persone non binarie. Non esiste dunque un iter scientifico per far cambiare la lingua: essa cambia quando i/le parlanti (o almeno la maggioranza di loro) reputano che debba cambiare. Rubrica in collaborazione con il portale Dico - Dubbi sull’Italiano

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