Giovedì 21 Novembre 2024

Bullismo, Scorza (Garante Privacy): colmare gli abissi educativi insegnando che la prepotenza è da "sfigati"

Content creator e “influencer”, anche a sette anni, nonostante l’età minima sia di 14. Con profili e canali social in cui per conquistare like e follower si offre la propria vita - e spesso anche quella altrui - con foto, video, nomi cognomi e indirizzi, a persone completamente sconosciute, con cui si entra in contatto anche direttamente. Divenendo potenziali vittime di bullismo, adescamento, o aggressioni: quasi la metà ha dichiarato di avere subito prepotenze in quel mondo web in cui si trascorre una quantità di tempo sempre maggiore e senza la consapevolezza delle conseguenze - non solo giuridiche, o virtuali, ma  dolorosamente  “reali” - delle proprie azioni. Anche quelle in apparenza più banali, come  postare una foto di casa o di altri coetanei,  o l’usare una “semplice” parola sprezzante verso qualcuno che non si ha davanti. È il quadro sconcertante che viene fuori dall’esame dei vari rapporti (Moige o Save The Children, solo per citarne alcuni tra i più autorevoli) diffusi in questi giorni, scanditi da un potente appello alla consapevolezza sulle derive cui il mondo web espone bambine e bambini, ma non solo. “Nativi digitali” solo per un fatto anagrafico, e certo non perché “naturalmente” preparati ad affrontarlo. E ce lo insegnano proprio giornate come queste: il Safer Internet Day, la Giornata nazionale contro bullismo e cyberbullismo e il Mese della Sicurezza in rete. Ne parliamo con l’avv. Guido Scorza, componente del Collegio del Garante della Privacy, che è stato tra gli ospiti dell’evento promosso nell’ambito di Generazioni Connesse per il SID 2024. Una giornata per richiamare l'attenzione sul bullismo e cyberbullismo, fronte su cui il Garante della Privacy è costantemente impegnato. In quale modo l'ambiente digitale ha cambiato le dinamiche di prevaricazione e sopraffazione, e quanto è importante far comprendere che virtuale è reale? “Le parole fanno più male delle botte. Ciò che è accaduto a me non deve più succedere a nessuno”. È l’ultimo messaggio di Carolina Picchio, morta suicida, gettandosi da un balcone, una delle prime bambine vittime di bullismo nel nostro Paese. Difficile raccontare meglio quanto il cosiddetto “virtuale” sia semplicemente una forma diversa del reale. Digitale, immateriale, inafferrabile ma non per questo meno violento, meno doloroso, meno drammatico nell’impatto che produce su una persona, un bambino o una bambina in maniera particolare. Non sono cambiate – credo – le dinamiche di prevaricazione e sopraffazione, ne è cambiata la magnitudine. Una cosa è accettare di essere stati “bullizzati” davanti a una decina di persone in classe, all’uscita da scuola o a una festa, una cosa completamente diversa è dover far i conti con il fatto che lo stesso episodio, complici i social, ha raggiunto centinaia, migliaia o decine di migliaia di persone. E non è solo una questione legata all’audience di episodi che non dovrebbero accadere ma che, sfortunatamente, accadono da sempre. È anche una questione legata al tempo. Ai tempi dei social: niente è istantaneo, episodico, temporaneo ma tutto dura per sempre. Per quanto ci si sforzi di voltar pagina, ogni volta che ci si è quasi riusciti, c’è il rischio che il video di quell’istante divenuto eterno ci venga riproposto in un altrove digitale, riaccendendo la sofferenza e il dolore che si era faticosamente cercato di cancellare con la voglia di vivere e con l’amor proprio.   Quali comportamenti possono rientrare nella definizione di bullismo o cyberbullismo, anche dal punto di vista normativo, e quali sono gli strumenti di difesa offerti a chi ne è vittima? “Qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”. È questa la definizione di cyberbullismo contenuta nella disciplina vigente, la legge 29 maggio 2017, n. 71, Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 3 giugno 2017. Una definizione amplissima nata con l’ambizione di abbracciare un fenomeno eterogeneo e multiforme che, anche complice il continuo e incessante evolversi delle tecnologie, tende, sin dalle origini, a sottrarsi a ogni esercizio definitorio. Perché sono decine le modalità attraverso le quali, nella dimensione digitale o, forse, meglio, attraverso dispositivi e servizi digitali si può umiliare, prevaricare, isolare un bambino e lasciarlo solo in un angolo in preda alle sue debolezze, le sue angosce, le sue diversità. Siamo davanti a uno dei più orribili fenomeni dei quali l’ecosistema digitale rappresenta un teatro d’elezione. Nel nostro Paese, dopo la legge del 2017, gli strumenti di difesa delle vittime ci sono ma, sfortunatamente, sono regole che consentono di limitare gli effetti di episodi già consumatisi o di chiamare i responsabili a risponderne ma non anche di evitare – salvo che per il profilo disincentivante proprio di qualsiasi regola che punisca un comportamento – che certi episodi si verifichino. Non si può insomma dimenticare che si tratta di un fenomeno di matrice culturale e tecnologica contro il quale divieti, sanzioni e provvedimenti d’urgenza sono necessari ma non sufficienti. In particolare qual è il ruolo del Garante e l'efficacia delle previsioni che consentono di chiedere alle piattaforme l'oscuramento dei contenuti lesivi? Nel sistema della legge 71/2017 il ruolo del Garante è quello di garantire alle vittime la possibilità di veder contenuta, in via d’urgenza, la circolazione del contenuto attraverso il quale la condotta di cyberbullismo si è manifestata o sta amplificando i suoi effetti. L’intervento del Garante può essere richiesto – e, questo, rappresenta probabilmente un valore aggiunto significativo delle regole delle quali stiamo parlando – semplicemente compilando un modulo disponibile sul sito internet del Garante. Questo dovrebbe abbattere, per quanto possibile, molte delle resistenze che spesso rallentano o, addirittura, bloccano le vittime e i loro familiari dal richiedere l’intervento delle autorità. Quanto è grave il ruolo di chi sta a guardare? Possiamo dire che è grave quanto quello di chi  materialmente compie gli atti di bullismo? E quanto incide il meccanismo del branco, "tutti contro uno"? Chi guarda senza intervenire in difesa di chi è vittima di cyberbullismo è, per dirla con un’espressione cara ai più giovani, almeno un follower dei bulli o delle bulle ma, talvolta diventa a sua volta bullo o bulla perché con il suo comportamento rafforza l’aggressore o gli aggressori e indebolisce la vittima. Sfortunatamente, tanto nella dimensione fisica che in quella digitale, il branco è uno dei più pericolosi amplificatori di qualsiasi intenzione malevola quando non è addirittura il fattore genetico scatenante l’aggressione. Capita spesso, purtroppo, nelle vicende di cyberbullismo, di dover prendere atto che bambini che da soli non avrebbero mai aggredito altri bambini, in branco si sentano legittimati a farlo o, addirittura, costretti a farlo per non diventare loro stessi vittima del branco per non aver voluto aderire alla decisione criminale dei più.   Si insiste anche sulla necessità di tenere conto non solo di chi subisce gli atti di bullismo ma anche di chi li compie, puntando anche alla rieducazione e all'eliminazione delle cause scatenanti. Come agire per evitare comportamenti che poi sfociano in atti di bullismo, e quale deve essere il ruolo della scuola? La diagnosi, a distanza di anni dall’emersione del fenomeno, è chiara ma, sfortunatamente la terapia non ancora. C’è, però, una certezza: siamo davanti a un fenomeno figlio di sub culture diffuse che suggeriscono che violenza, prevaricazione e sopraffazione del più fragile siano valori e virtù per emergere anziché vizi e limiti caratteriali figli di disagi e abissi educativi. Insomma se il futuro bullo sapesse che diventare bullo è da “sfigati”, forse non diventerebbe mai bullo. C’è bisogno di modelli positivi che si contrappongano a quelli negativi e non c’è dubbio che la scuola potrebbe e dovrebbe avere un ruolo-chiave nel proporli.

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