Buongiorno ragazzi. Gli studenti sono stati in gita. Il dirigente scolastico Ada Rossi ha firmato la circolare. Il professore ordinario Rosa Bianchi tiene le sue lezioni in sala A, con il dottore di ricerca Laura Neri. E così via... Eppure non diremmo mai l’attore Sophia Loren, "le studentesse" se nel gruppo c'è anche un solo ragazzo... O “il maestro”, se riferito ad una donna che insegna. Salvo, invece, mantenere saldamente il maschile se, ad esempio, ci si deve riferire ad una persona che dirige un'orchestra.
Per non parlare, poi, di ciò che dovrebbe essere la suprema attestazione paritaria, e invece ne diviene la negazione linguistica: i "Diritti dell'Uomo", richiamati nelle convenzioni internazionali come se "uomo" (con la U maiuscola...) dovesse ricomprendere ogni genere di persona.
Sono locuzioni di uso comune, spesso non ci si bada neanche. O, perlomeno, non ci bada troppo chi alle parole non attribuisce il corretto valore, quello di modellare una rappresentazione della realtà cui corrisponde un pensiero. E, ancora, troppo diffusamente, il pensiero comune associa all'identità maschile l'autorevolezza e il prestigio, come fosse scontato, naturale, incontrovertibile, immutabile. Maestra? Va bene in classe, ma sul podio no, a dirigere è "il maestro", anche se è una donna... E anche in questi giorni di estesa... "fioritura di mimose" e celebrazioni dei successi femminili stride profondamente il dilagare incontrastato di donne definite - anche da se stesse - serenamente al maschile. Da oltre quarant'anni il tema è noto, con fortune per la verità non troppo rilevanti, ma la sensibilità contemporanea ne sta marcando maggiormente la priorità e l'urgenza, ad esempio nel linguaggio istituzionale e ancor più in quello del mondo scolastico, ambiente al quale si assegna un ruolo fondamentale nella costruzione della società del rispetto e della valorizzazione delle differenze. Che, però, deve necessariamente partire “dal basso” e passare anche dalle parole, come sempre più drammaticamente c'insegna il doloroso dilagare della violenza verbale, e di quel linguaggio d'odio che, specie sul web, è capace di uccidere.
Le Linee Guida del 2018 per la scuola e l'Università
Proprio nell'ambiente didattico, nel 2018 un decreto dell'allora ministra Valeria Fedeli (il dicastero era ancora Miur, riunendo l'Istruzione scolastica e l'Università) introdusse le "Linee Guida per l'uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur", per ottenere un linguaggio "rispettoso delle differenze di genere". Da allora, alcuni obiettivi sono stati raggiunti: una prova di ciò risiede, ad esempio, nel decreto ministeriale (oggi del Ministero dell'Università e della Ricerca) di nomina della prof.ssa Giovanna Spatari a rettrice (e non rettore) dell'Università di Messina. Ma molto ancora deve cambiare, sia nei documenti ufficiali che, soprattutto, sul piano della percezione reale, di quel “pensiero” dal quale poi discendono le parole.
Il bilancio a sei anni, dopo la pronuncia della Crusca
A sei anni di distanza tracciamo un bilancio con la stessa sen. Fedeli, richiamando peraltro anche il pronunciamento dell'Accademia della Crusca che, in risposta al quesito posto dalla Commissione Pari opportunità della Corte di Cassazione, ha ricordato come la declinazione al femminile vada adottata "senza esitazione" negli atti dell'amministrazione della giustizia come in quelli delle altre amministrazioni. Suggerendo, inoltre, di evitare l'uso del sostantivo "uomo", al singolare, per ricomprendere ogni altro genere.
- Senatrice Fedeli, qual è secondo lei il ruolo del linguaggio nell'affermazione dell'equilibrio di genere e perché si rese necessario proprio un manuale relativo all'uso delle parole nel mondo dell'istruzione?
«La cornice e il contesto in cui decisi, nella ricorrenza dell’8 marzo del 2018, di affrontare l’uso corretto del genere grammaticale nel linguaggio amministrativo nasce dal contributo che detti come vicepresidente del Senato nella XVII legislatura, alla definizione del Comma 16 della legge 107 “La Buona Scuola” che recepiva la proposta di legge per l’introduzione all’educazione alla parità di genere che avevo presentato in Senato nel 2014, anche in attuazione di quanto richiedeva la Convenzione di Istanbul che nel 2013 era stata votata all’unanimità dal Parlamento italiano».
«Era necessario che il processo d’innovazione e modernizzazione del sistema di educazione e istruzione superasse anche le discriminazioni di genere e valorizzasse le differenze. Per questo, abbiamo predisposto “Linee Guida Nazionali per l’Educazione al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme discriminazione”. All’interno di queste linee guida, per ogni ordine e grado scolastico, dentro l’offerta formativa abbiamo, perciò, introdotto “Il femminile e il maschile nel linguaggio”, proprio in considerazione del fatto che un’altra forma di violenza e discriminazione simbolica è la cancellazione della differenza di genere in nome di una presunta neutralità o uguaglianza nel linguaggio che, in realtà, rappresenta un adeguamento al modello maschile. Troppe resistenze esistevano e continuano ad esistere nel linguaggio quotidiano, nei media, nelle istituzioni e, purtroppo, anche nei libri di testo. Quindi adeguare l’uso della lingua al nuovo status assunto dalle donne in campo professionale e istituzionale era ed è parte della cultura del rispetto e del riconoscimento delle differenze e del superamento delle discriminazioni. Favorendo la parità, e trasmettendo modelli socioculturali utili alle giovani generazioni per la scelta della futura professione, oltre che di rispetto del proprio genere».
- Moltissime donne nella carriera scolastica o universitaria - ma non solo - si definiscono ancora al maschile, "dirigente scolastico", o "professore". Mentre è largamente diffuso il maschile sovraesteso (studenti, ragazzi per ricomprendere anche le ragazze). Perché secondo lei?
«Si sosteneva e si continua a sostenere l’uso della sola forma maschile dei titoli che indicano ruoli istituzionali o professionali ritenuti prestigiosi anche se sono riferiti a donne, accampando giustificazioni inconsistenti sul piano linguistico e sostenendo la tesi che si tratti di un uso “neutro” del linguaggio che fungerebbe, addirittura, da baluardo contro discriminazioni. Di contro, le forme femminili che indicano professioni ritenute meno prestigiose continuano ad essere tranquillamente accettate. È doveroso qui sottolineare con forza che un atteggiamento omologante non produce un linguaggio “neutro”, bensì lo “maschilizza” ulteriormente, attraverso l’estensione impropria alle donne dell’uso del genere grammaticale maschile e favorisce, così, quei comportamenti discriminatori che riscontriamo in molte esperienze sociali e di lavoro. Per non dire del fatto che la lingua italiana non contempla affatto il genere neutro».
- Qual è a suo parere lo stato concreto di recepimento delle indicazioni contenute nel manuale? Sia sotto l'aspetto formale, cioè dell'uso corretto della declinazione al femminile nei provvedimenti, ma soprattutto sotto l'aspetto concettuale, e cioè nella reale percezione sociale del tema della parità di genere.
«Avendo compiuto questo impegnativo lavoro per tutte le scuole, era assolutamente urgente e necessario che anche il linguaggio amministrativo del Miur si modificasse conseguentemente. Le linee guida che ho emanato nel marzo 2018, hanno ripreso il lavoro prezioso e pionieristico di Alma Sabatini del 1987 “Il sessismo nella lingua italiana” e il lavoro di anni della professoressa Cecilia Robustelli che ha coordinato il gruppo di lavoro al Miur per costruire quelle linee guida. Voglio sottolineare anche il fondamentale lavoro dell’Accademia della Crusca che negli anni ha instancabilmente sottolineato come un uso non sessista e non discriminatorio dell’italiano fosse possibile senza forzature, ma semplicemente facendo attenzione a ciò che si dice e si scrive e utilizzando il genere grammaticale secondo le normali regole della nostra lingua».
«Avrei voluto che il cambiamento del linguaggio amministrativo diventasse effettivo, regolamentato in tutti i ministeri e in tutto il linguaggio amministrativo e istituzionale, ma, per questo obiettivo, dobbiamo ancora lavorare moltissimo. Basti pensare che, oggi, abbiamo donne che ricoprono importanti cariche istituzionali che rifiutano di utilizzare la lingua italiana nel declinare il proprio ruolo. E questo non fa che arretrare sul piano culturale e sociale il valore simbolico della parità tra donne e uomini anche nel ricoprire funzioni istituzionali importanti e non aiuta a superare la discriminazione che ancora vivono le donne in Italia e a far pensare, alle ragazze, che anche per loro quei traguardi sono, se scelti e perseguiti, possibili».
- Qual è oggi la sua valutazione, e quale dovrebbe essere il ruolo degli ambienti didattici nel contribuire a consolidare la cultura del rispetto e della valorizzazione delle differenze?
«Esiste un nesso complessivo tra le politiche antidiscriminatorie che devono essere fatte nel percorso formativo scolastico e universitario, con i dati che riguardano le discriminazioni sociali e lavorative di genere: il basso tasso di occupazione femminile, le differenze retributive tra donne e uomini a parità di mansioni svolte, il persistente carico del lavoro di cura (figli e familiari anziani non autosufficienti), l’assenza di politiche a sostegno della genitorialità condivisa, la particolare e drammatica situazione al sud dove le donne incontrano ancora più difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro per minori disponibilità di opportunità lavorative e la presenza di stereotipi di genere radicati che limitano le scelte formative e occupazionali».
Gli studi internazionali: Italia indietro. Superare il gap fa bene all'economia
«Prendo a riferimento - aggiunge ancora Fedeli - due studi assai importanti. Il primo, è l’ultimo rapporto delle Organizzazioni della società civile italiana presentato alla Cedaw nel gennaio 2024 nel quale si afferma che lo Stato italiano non ha seguìto un approccio di sistema e strutturale nel colmare il gender gap e che riprende positivamente proprio quanto avviato dal Miur nel 2017/18. Il secondo, è la Strategia Nazionale per la Parità di Genere 2021/26 del Governo Draghi che chiede l’adozione di un protocollo per un linguaggio non sessista e non discriminatorio in tutta la Pubblica Amministrazione».
«Restiamo un Paese che continua a non mettere in relazione e connessione, con proposte e iniziative politiche concrete, la centralità del superamento del gender gap con il superamento degli stereotipi; la centralità del linguaggio sessista nella formazione scolastica e universitaria, dai libri di testo alla conoscenza scientifica della cultura e studi di genere, con politiche pubbliche che favoriscano l’occupazione femminile quale risorsa e opportunità di miglioramento del benessere per tutti, uomini e donne». «Costruire una società e una economia della conoscenza per rendere qualitativamente sostenibile, paritaria e quindi competitiva l’Italia, presuppone fare della politica di contrasto al gender gap in tutti i campi, la priorità che serve al nostro Paese per crescere culturalmente, economicamente, socialmente. In fondo stiamo dicendo che serve attuare pienamente, ad ogni livello della società, l’articolo 3 della nostra Costituzione».
Il manuale Robustelli: buoni esempi per la parità di Giovanna Bergantin
Le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur”, volute e presentate nel 2018 dalla senatrice Valeria Fedeli, durante il suo mandato al dicastero di Viale Trastevere, “per rimuovere le discriminazioni di genere nel linguaggio del MIUR promuovendo al contempo una semplificazione e una maggiore chiarezza nella comunicazione sia interna che esterna”, sono frutto dell’operato di un gruppo di lavoro coordinato dalla linguista Cecilia Robustelli. Le linee guida si aprono con una interessante parte introduttiva sulla ricostruzione storica e con una riflessione sul rapporto tra linguaggio di genere e linguaggio amministrativo. Una veloce e chiara presentazione dell’iter che, attraverso un’operazione di revisione testuale destinata a incidere profondamente sulla comunicazione istituzionale, ha portato le amministrazioni pubbliche ad approcciarsi ad un corretto uso del linguaggio non discriminatorio. Nel terzo capitolo le indicazioni per l’uso del linguaggio di genere nei testi amministrativi. In una prima sezione si affronta il tema con alcuni esempi su specifiche conoscenze grammaticali rimandando per approfondimenti a testi specialistici. La seconda sezione del terzo capitolo presenta delle strategie di intervento per quanto riguarda l’uso del genere grammaticale per riferenti femminili e maschili nei testi amministrativi. Le linee prendono in considerazione anche alcune ipotesi di riscrittura testuale per diverse varietà di forme di comunicazione specifiche della pubblica amministrazione, che vanno dal decreto all’ordinanza, alla circolare, alle lettere istituzionali. Seguono alcune riflessioni conclusive, indicazioni bibliografiche, una lista di termini femminili relativi a ruoli istituzionali e un’appendice con alcuni esempi di revisione di testi in uso all’Amministrazione che, se adeguatamente recepiti, eliminerebbero i tratti linguistici discriminatori salvaguardano il livello di leggibilità e di efficacia comunicativa, rappresentando buoni esempi anche per gli interventi formativi.
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