
«Pe(n)sate le parole che dite».
È tutta lì, nel monito dolente e amaro di Teresa Manes, la ragione di una morte atroce, quella di suo figlio Andrea Spezzacatena, che il 20 novembre del 2012 si è lasciato strangolare da una sciarpa, in casa, pochi giorni dopo il quindicesimo compleanno, al culmine di uno stillicidio di sopraffazione e dileggio subito da un gruppo di coetanei. Violenze non fisiche, ma ancor più devastanti, parole scagliate come armi letali contro un bersaglio troppo facile, un’anima gentile, colpita nella più intima essenza: la libertà di essere e di esprimersi. Anche usando lo smalto colorato, oppure indossando divertenti pantaloni, divenuti rosa per un lavaggio sbagliato. Segni che oggi, probabilmente, alla luce di una sensibilità mutata sarebbero letti in maniera diversa. Ma allora non fu così, scatenando una sorta di martellante persecuzione alimentata da spietati pregiudizi e offese omofobe.
Oggi questo ha un nome: bullismo, il termine che, anche grazie a storie come questa, è divenuto ampiamente riconoscibile, innalzando immediatamente le barricate dell’attenzione, dell’intervento sociale, della difesa delle fragilità.
Il film e i riflettori riaccesi
A riportare la storia alle cronache è stato nello scorso mese di novembre, il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” di Margherita Ferri, liberamente tratto dal libro di Teresa Manes, “Andrea, oltre il pantalone rosa”. Ai quattro già scritti se ne aggiungerà un quinto: scrivere - libri, dialoghi social - e parlare, soprattutto nelle scuole, è adesso la missione della mamma di Andrea, 56 anni tra pochi giorni, originaria di San Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza, spostandosi poi a Crotone e quindi a Roma, dove si è laureata in Giurisprudenza a La Sapienza. Quel tremendo giorno di novembre Teresa si era recata per un colloquio di lavoro in Calabria, e ricorda per l’ennesima volta come, per puro caso, si trovasse al telefono con l’ex marito, mentre lui e il figlio più piccolo Daniele rincasavano, scoprendo il corpo di Andrea.
Da lì in poi, un’altra esistenza.
Un veleno che scorre ancora
In una madre di un figlio adolescente, la visione del film produce precisi, laceranti effetti. Un'angoscia devastante e costante, mentre scorrono le immagini di una quotidianità così comune, eppure rivelatasi al tal punto efferata, tragicamente intollerabile. Poi, all’uscita, un inconfessabile profondo sollievo, e il desiderio di rivedere subito quell'alieno che cresce a vista d'occhio e che fino a ieri ti cercava la mano, mentre oggi ti guarda da una distanza siderale, atterrando ogni tanto dal Pianeta PS5. Un dolce alieno, palpitante e querulo, da accompagnare e rimbrottare, allo sfinimento. Ma anche quell’eterno disputare all’improvviso diventa un bel momento. Perché anche quella è comunicazione, e perché lui è vivo. Andrea, invece, no.
Cosa provano i giovani davanti a questa vicenda, e a ciò che ha comportato e comporta, si può immaginare, anzi constatare: basta aver partecipato a una delle tante meritorie proiezioni organizzate per le scuole, guardandoli in sala, ascoltandone i sussurri o i silenzi eloquenti. Cogliendo quanto ne siano stati colpiti, come molti hanno anche raccontato sulle pagine di Noi Magazine, dimostrando tanta di quell’empatia della cui carenza spesso li si accusa. Ma, non lo si può nascondere, palpabile è stata anche talvolta l’indifferenza, o peggio, come mostrato dai commenti sprezzanti registratisi in alcune occasioni, segno che il veleno si propaga, nemmeno tanto silenziosamente. Ma è successo, quei fatti sono avvenuti. Quei comportamenti sono possibili, e possono capitare di nuovo, a chiunque, se non se ne annienta il seme tossico.
La missione contro il bullismo
Combatterli è dunque diventato ciò che sostiene l’esistenza di Teresa Manes, attraverso quella che lei definisce una “progettualizzazione” del dolore, diventato quindi strumento pedagogico impiegato durante i tanti incontri con le scuole. Proprio in questi giorni è impegnata nelle manifestazioni promosse per la Giornata contro il bullismo e cyberbullismo, che si tiene in Italia ogni anno il 7 febbraio a ridosso del Safer Internet Day (che sarà martedì prossimo 11 febbraio), per promuovere l’uso consapevole della tecnologia. Spesso il bullismo vira nella dimensione digitale, divenendo “cyber” e dilatando i suoi distruttivi effetti. Ma non sempre è così, come Teresa tiene a chiarire nella vicenda che riguarda suo figlio, una delle prime vittime di bullismo “reale” ancor più che virtuale, quando la materia era semisconosciuta, e gli smartphone e i dispositivi si affacciavano alla quotidianità degli adolescenti - e non solo - per sconvolgerla.
L'abisso sconosciuto
«Andrea aveva avuto un telefonino, e aperto un profilo Facebook. E anche io, per seguire il suo. Ma mai nulla ha lasciato minimamente presagire quello che stava vivendo. Di quella pagina, “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, ho saputo solo mentre ero all’obitorio» ricorda Teresa, acconsentendo - non senza un velo di tormento, visibile anche dopo tanti anni - a raccontare per l’ennesima volta quei momenti in cui la sua vita è deflagrata. «Quando abbiamo scoperto la pagina, poi disattivata per intervento dell’Oscad (Osservatorio interforze per la sicurezza contro gli atti discriminatori del Ministero dell’Interno, ndc) - continua - io e mio padre l’abbiamo setacciata, non era facile, e abbiamo ricostruito tutto il disagio in cui viveva. Non so perché non si sia confidato con me. Per vergogna, per non deludermi, ma credo inizialmente abbia pensato di poter gestire la situazione. Che invece gli è sfuggita». Quella pagina aveva 27 iscritti, innescando un'errata percezione sull'impatto numerico di fronte ai valori globali cui ci abituano le dinamiche web. Ma su questo Teresa è ferrea: «Attenzione a non soffermarsi solo perché non ci sono i grossi numeri: basta una persona, basta una parola».
Le avvisaglie taciute
Così, commento dopo commento, la realtà terribile vissuta da quel figlio «dolce e solare, con cui il dialogo c’era», prende forma. Emerge che il suo dedicarsi alla corsa negli ultimi mesi non era per sport, ma per mortificare il corpo, vengono fuori anche atti di autolesionismo e un altro tentativo di suicidio, di cui alcuni coetanei (risulta difficile chiamarli “amici”) sapevano. «Non me ne hanno mai parlato. Vivranno con questo rimorso», dice Teresa. Lei non li ha mai cercati, racconta di non avere mai parlato con loro, di non avere chiesto neanche dove si è svolta la festa, ripresa in una delle scene più sconvolgenti del film, con il giovane caduto in un tranello crudele: vi partecipa travestito da donna, la mamma l’aveva anche aiutato per gioco, credendo che lo avrebbero fatto anche gli altri del gruppo di cui voleva sentirsi parte. Invece era l’unico, finendo schernito da un branco di ragazzini. Lancinante, pure per chi si limita solo a sedere in un cinema, pensando che il male può anche avere sembianze innocenti.
Prevenire, ma anche punire
«Non credo che fossero pienamente consapevoli di ciò che stavano provocando - è la spiegazione che Teresa si è data del calvario di suo figlio - Credo che ciò che ha governato tutto sia stata l’inconsapevolezza, che sia stato un crescendo, di fronte al quale anche lui ha avuto una distorsione cognitiva e ha reagito ridendo di se stesso, pur di fare parte di quel gruppo». «Credo tanto nella prevenzione - afferma - ma anche nella punizione, per innescare quel processo di maturazione: se non punisci non fai comprendere il disvalore».
La rotta giudiziaria del caso Spezzacatena è presto naufragata contro scogli che forse oggi non ci sarebbero stati e le denunce (contro alcuni insegnanti e giovani incauti autori di like alla famigerata pagina) sono state archiviate, non senza la sofferenza della vittimizzazione secondaria, nel sentire durante la fase istruttoria affermazioni sconcertanti («Ma se il ragazzo metteva lo smalto quelle parole se le doveva aspettare») derivanti da stereotipi duri a morire. Rimane dunque una strada diversa, quella del racconto.
Ma da dove nasce il bullo?
Il film è liberamente tratto dal libro, con alcuni messaggi affidati anche a licenze narrative. «Volevamo esprimere il silenzio della scuola - afferma Teresa - e anche il bacio dato a Christian non è nel mio libro. Andrea non era omosessuale, e se lo fosse stato io lo avrei difeso. Ma non è questo il punto, questo non importa e non deve importare. Tutti dovrebbero essere liberi di esprimersi senza pregiudizi. Lui doveva portare lo smalto per ricostruire le unghie e suonare il pianoforte: decise che lo voleva colorato, blu, rosso, rosa, e io l'ho accompagnato a comprarlo. E anche il pantalone che aveva cambiato colore gli piaceva. Aveva una sensibilità diversa. Il problema non è solo la violenza di genere, contro le donne, ma le relazioni tossiche tra gli adolescenti». Alterate da modelli storpiati, anche familiari, proprio in una fase in cui ciascuno dovrebbe essere libero di ricercare la sua identità, senza essere influenzato da atteggiamenti come, ad esempio, gli insulti di matrice omofoba o sessista diffusi nel linguaggio quotidiano, anche in ambienti culturalmente elevati e fedelmente riprodotti dai giovani. «Da dove nasce un bullo? - chiede amareggiata Teresa - Se un padre scrive nei commenti che mio figlio era privo di spina dorsale, che cosa sta insegnando al suo, di figlio? E quando vado nelle scuole noto che le ragazze sono molto più vicine, mentre i ragazzi si irrigidiscono».
Il dolore che diventa pedagogia
Resta quella sensazione sconfortante: oggi forse sarebbe andata diversamente. Probabilmente uno smalto o un indumento insolito non avrebbero impressionato più di tanto, o qualcuno avrebbe segnalato per tempo, e forse anche le risposte del sistema sociale e istituzionale (scuola, forze dell’ordine, giustizia) sarebbero state più efficaci. Dodici anni di esperienza, e di sofferenza per migliaia di vittime e familiari, hanno cambiato le cose. E Teresa Manes lo riconosce: «Giornate come queste hanno un grande valore, sono essenziali per accendere i riflettori, avendo contezza che il tema ha a che fare con l'agito di ognuno di noi. Il cambiamento c'è stato, con gli interventi normativi che hanno costretto le scuole a prendere coscienza, con la piattaforma Elisa per la formazione dei docenti. Utile anche lo strumento dell'ammonimento. C'è una maggiore sensibilità: il mio augurio è che ciascuno si faccia carico di questo problema, con un cambiamento culturale che riparta innanzitutto dal linguaggio».
Il futuro? La stanchezza è tanta
Teresa Manes è stata nominata nel 2022 Cavaliere della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella, mentre sta per abilitarsi all’insegnamento di sostegno ed è stata appena inserita nel tavolo per il contrasto al bullismo promosso dal Ministero dell'Istruzione. Ma intanto, la sua Associazione Italiana Prevenzione Bullismo, creata nel 2019, ha sospeso le attività, mentre rischia di fermarsi anche il tour di incontri nelle scuole. La fatica è tanta e pesa: «Vorrei più attenzione e sostegno dalle istituzioni», dice, soprattutto per poter proseguire il progetto itinerante di sensibilizzazione, impegnativo sotto tutti i punti di vista. Il caso Spezzacatena è drammaticamente attuale, e l’esperienza di Teresa può aiutare moltissime persone: speriamo di poter sentire la sua voce preziosa ancora a lungo.
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