Senza cedere alle sirene malinconiche del nostalgismo si avverte il bisogno di interrogarsi sulla classe dirigente in Italia, intesa come fonte di un processo osmotico che dovrebbe trasferire linfa alla politica, rigenerando l’identità della rappresentanza. Gli scenari elettorali nelle città-bandiera, Napoli, Roma, Milano, stanno facendo emergere le profonde difficoltà delle forze politiche anchilosate da un vuoto “umano”, incapaci di proporre soluzioni innovative, magari maturate in una riconoscibile appartenenza di area. I partiti non sono più cantieri aperti, ma palazzi semideserti senza ascensori “sociali”, abitati solo all’ultimo piano da un nucleo di comando. La selezione dei candidati è affidata alla cooptazione, magari fondata su criteri mediatici (Simonetta Martone, una carriera in Magistratura e a “Porta a Porta) o sull’usato apparentemente sicuro (Albertini, Bertolaso…). La politica si è rattrappita, avendo perso quel ruolo culturale che conteneva i semi della formazione. Sono in via di estinzione i tanto vituperati intellettuali organici, le università si sono chiuse a riccio, la politica non è circolare ma si limita a un salotto televisivo. Oggi è al timone una classe dirigente per buona parte ingaggiata (Draghi) o improvvisata (la Raggi a Roma), naturalmente anche con le più nobili intenzioni e in assoluta buona fede al servizio del Paese. Però, quando si aprono i Palazzi per il cambio della guardia lo sguardo si perde nel deserto e gli orizzonti si restringono. L’impegno politico innesca meccanismi selettivi senza ancoraggi che rendono le distinzioni effimere. E, di conseguenza, del tutto superflua la formazione culturale. La sostanziale neutralità è la “forma dell’acqua” che trova condizioni apparentemente inconciliabili di compatibilità. Se il Pd può andare a braccetto con la Lega vuol dire che le differenze si annullano e che la classe dirigente può benissimo assumere un profilo “mercenario”. Altro che transumanze. Non a caso la Meloni, facendo leva sull’identità, è riuscita a guadagnare spazi e popolarità. Significa che il corpo sociale avverte ancora il valore delle distinzioni come bussola per l’orientamento politico. Il “mucchio selvaggio” rischia di radicalizzare l’elettorato, soprattutto in una fase di profonda crisi economica.