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L’evoluzione del "Drive In": dalla Tv agli screening ai tempi del coronavirus

Negli anni Ottanta, il programma televisivo Drive In spopolava su Italia 1 e teneva incollati ai teleschermi milioni di aficionados. Un genere di commedia con cadenza settimanale, intriso di parodie, gag e belle donne in mise succinte. Tanto che il critico Aldo Grasso parlava di format in cui “la seduzione e la malia erotica delle star hollywoodiane cedono il passo all'ostensione e all'ostentazione della carne”. La trasmissione prendeva l’appellativo dal termine che negli Stati Uniti identificava per lo più uno spettacolo cinematografico o teatrale fruito comodamente in automobile, parcheggiata in ampie aree. Quarant’anni dopo, molte di queste superfici - piazze, impianti sportivi e perché no, luoghi dismessi - hanno una nuova destinazione d’uso. In nome dei sempre più ricorrenti “screening” legati al coronavirus.

Stati d’animo di segno opposto, quindi, con angoscia e inquietudine che prendono il posto della leggerezza e della spensieratezza tipiche di quel contesto. Ed ecco i drive-in odierni, riservati ai tamponi molecolari anti-Covid. A cui molti, non tutti, si sottopongono. Così, i controlli diagnostici finalizzati a identificare i soggetti positivi vengono applicati su una scala meno vasta del preventivato. Da qui la necessità di drive-in ripetuti in più spazi e in più tempi. Che poi sarebbe più corretto chiamare drive-through ("guida attraverso"), perché i veicoli, seguendo un percorso stabilito, devono fermarsi soltanto per il prelievo. Gli amanti di Ezio Greggio, Gianfranco D’Angelo, Giorgio Faletti e Tinì Cansino possono dormire sonni tranquilli. Lo schema originario è salvo.

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