Il festival delle bizze e dei baci in bocca, del ferro e del fiorello, degli stracci che volano, dei passi avanti e indietro, dei passi lontano, fuggendo, per fare una cosa che mai s'era vista in 70 anni: una squalifica per abbandono del campo. Dei passi falsi: di Amadeus prima ancora di cominciare, e che deve poi faticare per cinque giorni per mostrarsi «dalla parte delle donne».
Quale parte, viene da dire, visto che le donne entrano regolarmente quasi due ore dopo il fischio d'inizio, e se hanno qualcosa da dire (ma non tutte: di alcune abbiamo potuto apprezzare solo outfit e acconciatura) magari è meglio che la dicano a tarda notte: prima spazio ad annunci da vallette, tanghi fasulli e sorrisi muti mentre vanno in scena gli sketch degli amiconi Ama e Ciuri.
Per carità, Fiorello è sempre irresistibile, anche al netto di certi siparietti da gita delle medie. Una delle manifestazioni “carine” del maschile inoffensivo, simpatico. Che fa pendant col femminile carino e simpatico dei monologhi disneyani sulla bellezza (un peso, signora mia, un peso...), dei vestitini, del glamour, delle occhiate al fidanzato superstar in platea. E pazienza se c'è un urlo, dentro l'altro monologo, quello di Rula.
Se ci sono i fili della trama tossica di maschile e femminile, come in certe canzoni vecchissime (“Gli uomini non cambiano”) reinventate in uno scambio di sguardi, pause, accenti, scritte col corpo e col trucco da Achille Lauro, che non rifà Bowie fuori tempo massimo ma cerca un varco, una lama di luce, di voce, per bucare l'immenso blob di Sanremo che tutto assorbe e tutto normalizza. E sì, da lui, da Rula, da Paolo (ridotto dalla malattia senza voce, ma non senza musica), da alcuni brani, sguardi, voci qualcosa anche stavolta ci arriva come un lampo, ci consola, ci basta.
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