L’accento non lo tradisce, ma le sue origini sono messinesi di Filicudi, dove sta la sua mamma, dove sette isole tifano per lui. Nei gruppi di ascolto, tra la gente che ne parla e lo sostiene. Anche perché lì, alle Eolie, lo conosce chiunque, lui lì ci torna sempre. C’è stato a lungo pure l’estate scorsa, per le vacanze sperdute tra gli affetti, per riprendersi dagli effetti. E Dargen D’Amico l’ha scritto nel suo pezzo, l’ha scritto per urgenza. L’unico brano in gara che accenni alla pandemia è un diario emotivo. Parla della necessità della musica o è la musica che parla della necessità di sé, della propria autostima.
“Dove si balla” è nato quando è tornata forte l’emergenza.
«Come una valvola di sfogo, lo sfiato dalla pressione di chi per 32 mesi chi ha dovuto smettere di fare l’artista. Toccava riallacciarsi al proprio mondo nell’unico modo. C’era da attivare un interruttore, aprire un rubinetto e io l’ho fatto»
Quarto posto in sala stampa, è già successo...
«Che condivido. A Sanremo si vede l’artista che si presenta sul palco a dire le sue quattro minchiate, ma dietro ci sono quelli che hanno cucito l’abito sulle mie forme. La classifica, invece, quella interessa più a chi andrà sul podio e non credo di appartenere alla categoria».
Balla e “fottitene”, di cosa?
«Del terrorismo psicologico, di quei media governati dalla volontà di cavalcare le nostre paure, delle limitazioni, di quelle mentali soprattutto. È un invito che facevo a me stesso».
Meglio autore o protagonista?
«Ho due anime: una lavora per gli altri, l’altra va sul palco. Credo nella dignità della terapia musicale, non sempre credo in me come personaggio sulla scena. Non sono nemmeno adatto a promuovere le mie canzoni, soprattutto in quest’era digitale che non è il mio mondo».
Stasera sarai solo con “La bambola” di Patti Pravo, senza ospite.
«Ho scritto un’altra strofa. Sarò solo per godermi le mie scelte. So che è usare la musica per fini privati, ma io l’ho sempre fatta così».
Intanto c’è un album pronto. Un disco chiude un ciclo e apre un mondo.
«Ho sentito l’esigenza di forzare l’immobilismo, di rimettermi a scrivere giorno e notte. Anche finirlo era un’esigenza, perché se scrivo mi dimentico di vivere. Uscirà il 4 marzo. S'intitola "Nei sogni nessuno è monogamo". Dentro ci sono le cose più dignitose, quelle attaccate alla mia testa. Niente collaborazioni né anticipazioni. Che senso ha andare dal medico a dirgli quello che hai? Lascia che te lo dica lui, lascia che te lo dica il disco».
Quella regola non scritta che i rapper non partecipano al Festival?
«Io non ho pregiudizi. In passato avevo già provato un paio di volte (2015 e 2017), ma erano festival in cui o non ero pronto io o l’intenzione non era quella di fotografare tutte le declinazioni della musica in Italia. Il rap è un genere di rottura, che ha sempre rubato da tutti gli altri mentre cercava di isolare la propria unicità rispetto al resto, anche per un discorso culturale, di affermazione, di sopravvivenza. Ma questi festival sono quadri verosimili di quello che si fa in Italia, dovremmo andarci tutti. Poi se ci sono riuscito io…»
E poi c’è Fantasanremo. Tenersi i suoi occhiali scuri costa 5 punti ogni sera. Ieri ha contagiato anche l’orchestra. No, non li leverà.
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