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Sanremo "rosa"? No, arcobaleno in bianco e nero: ecco l'"essenziale" che ha colorato il festival tra alieni, gonne e... bacini

Niente monologhi, tanti messaggi, potenti, trasversali e fluidi: la "politica", nel senso più alto, all'Ariston c'era eccome, dalla musica alla... pubblicità

Niente "politica" a Sanremo 2024. Se intendiamo la sua forma deteriore, fatta - purtroppo, talvolta - di malaffare, interessi occulti, corruzione, distorsioni e manipolazioni allora, no, questa "politica" non c'era.
Se ne intendiamo invece l'accezione più alta, quella della "politica" che attraverso la partecipazione inviduale punta alla diffusione dei valori dell'essere umano, al bene comune e al supremo interesse collettivo per un mondo migliore, allora, sì. Nel Sanremo di Amadeus V questa "politica" c'è stata, eccome. In tantissimi momenti, alcuni - non molti - espliciti (su tutti Dargen D'Amico e Ghali, invocando pace e accoglienza) altri segnati da piccole grandi scelte, dettagli, parole. Messaggi "subliminali" potremmo dire, indiretti, ma fonte di potenti modelli volti a "normalizzare", a orientare la rappresentazione della realtà universalmente "accettabile" su schemi più fluidi, più aperti e accoglienti verso le diversità, rispetto a un incalzare di rigidità e pregiudizi che, in innumerevoli contesti, avvelena le relazioni e produce odio, discriminazioni, violenze.

Una trama comunicativa sottile ma solida - sin dal semplice ma non banale gesto di gentilezza universale del donare i fiori, alle donne come agli uomini - senza l'ossessiva ricerca del sensazionale, o del "superospite" guest, a togliere la scena ad uno spettacolo veramente straordinario in sè, molto internazionale nella sua "italianità", frutto di uno sforzo creativo e produttivo incomparabile della Rai, concepito e coltivato attorno a una direzione artistica da record, quella di Amadeus con Fiorello, che porrà un bel problema "ereditario" a chi ne riceverà lo scettro.

Il festival dei colori "per sottrazione"

C'era tanto arcobaleno tra il bianco e nero sul palco dell'Ariston, in quell'equilibrio cromatico che ha visivamente e concettualmente caratterizzato anche le scelte stilistiche degli oltre 170 tra artiste e artisti avvicendatisi. Un equilibrio confermato anche dagli squarci, come la chioma azzurra della queen Loredana Bertè, che non provoca ma afferma la summa di una carriera da assoluta trionfatrice al di là di risultati e classifiche, o le creste punk dei La Sad, incursione perfettamente metabolizzata tra linguaggi e liturgie. Nulla a guastare una percezione persistente di "sobrietà" che, pur nel contrasto con la scenografia sfavillante di uno spettacolo grandiosamente costruito, è stata la cifra di un Sanremo "totale" sviluppatosi per sottrazione, lasciando sulla scena l'essenziale, molto visibile agli occhi più attenti.

Mango: vince il merito e non la "quota rosa"

Innanzitutto, sottolineare che Angelina Mango è la prima donna dopo 10 anni a vincere il festival è statisticamente e giornalisticamente corretto, va doverosamente detto ma senza fermarsi qui, altrimenti si rischia di scivolare in una rappresentazione gravemente riduttiva, lontana dalla reale affermazione dell'equilibrio di genere che non poggia sulle "quote rosa", ma sulla capacità individuale, che non ha genere. La ventiduenne lucana figlia d'arte non ha vinto perché donna, anzi ragazza, o perchè "giovane", ma perché la sua performance artistica complessiva, musica, testo, esibizione, padronanza del palco - anche nel rialzarsi dopo la caduta, scena di forte valore simbolico - ha colpito, sinceramente emozionato trasformando alla fine tutti gli ingredienti nei numeri che hanno decreto la vittoria di una giovane autentica, grande nel suo definirsi "piccola", con moltissima strada davanti da affrontare dotata delle migliori premesse.

Sanremo si Ama, no all'hate speech

"Sanremo si ama" è stato il claim che ovviamente riprende il nome di Ama-Deus ex machina della grande kermesse, ma che richiama sentimenti positivi, invita a condividere, ad apprezzare e non disprezzare, specie tra le derive social dei discorsi d'odio, delle parole spregevoli sparse con leggerezza su qualunque argomento, e amplificate a dismisura. Un invito a rispettare, anche gli "avversari" o coloro che la pensano diversamente, o non incarnano le nostre preferenze, come Geolier - collezionista di dischi di platino e di consensi evidentemente non solo da Secondigliano - bersagliato in mondovisione da fischi gratuiti, immeritati, come non li merita umanamente nessuno, e soprattutto chi ha il coraggio di esibirsi su un palco davanti ad un pubblico.

"Sanremo si Ama", dunque, è stato un invito a riconoscere il valore di qualcosa che, comunque, comunica un'importante affermazione collettiva identitaria, una grandissima architettura artistica e produttiva della tv nazionale italiana, che ha offerto di certo intrattenimento puro, ma anche una monumentale cornice espressiva a disagi, dolori profondi, drammi e fragilità, dando voce al bisogno di accoglienza, di umanità. E non solo dei "giovani", protagonisti in quella dimensione di cui non sono più la novità ma la realtà. Da qui un crescendo di messaggi precisi, chiari, anche nel "prendere le distanze" da alcuni temi rimasti irrisolti dall'edizione 2023, distanze affermate con ironia, ammettendo, cogliendo il senso senza rinnegare, ma recuperado una preziosa traiettoria di equilibrio comunicativo. Tra tutte: la stola con il messaggio di Fiorello per Ama, "Pensati libero. E' l'ultima", ha ironicamente "esorcizzato" e chiuso i conti con la questione Ferragni.

Tutti i baci hanno gli stessi diritti: il prodigioso "preserbacino" e lo spot istituzionale

Un altro demone da scacciare: il bacio Rosa Chemical- Fedez, ad esempio, lo scorso anno ha creato polemiche e scandali, che probabilmente hanno diluito il significato profondo del gesto, offuscato dalla carica polarizzante dei due personaggi (il primo, sempre con una performance provocatoria, "riammesso" ma lontano dall'Ariston). Il bacio omosessuale tra due uomini in prima serata e in prima fila lo scorso anno aveva - purtroppo - suscitato sconcerto in chi ancora non ne ha maturato la "normalità": ma dopo un anno di elaborazione il risultato è stato perfetto, gradito, comprensibile e compreso. Sempre in prima serata e in prima fila, un magico strumento mai visto, il "preserbacino", affidato al garbo irresistibile di Marco Mengoni con delicatezza ha comunicato la stessa cosa, ma senza sconcertare: "Tutti i baci hanno gli stessi diritti" ha affermato, senza riproporre il bacio omosessuale, ma richiamandolo fortemente e lasciando che ciascuno se lo immaginasse a suo modo. Ma un enorme aiuto nella rappresentazione visiva è provenuto da una fonte inattesa: nientemeno che la Regione Liguria, che tra la moltitudine di temi promozionali possibili in questo contesto internazionale di visibilità ha scelto proprio il bacio come claim del suo spot istituzionale, in tutte le sue molteplici declinazioni, senza limiti di età, colore e neanche di genere. E in tema di "pubblicità" vale la pena di sottolineare che anche diverse aziende tra gli sponsor hanno puntato proprio sull'affermazione della libertà e dei diritti individuali, al ritmo di "Rumore" della Carrà, tra matrimoni andati a monte perché la sposa abbandona il promesso sull'altare per fuggire con la donna realmente amata e due parole, "Tu vali", affidate a un'icona della lotta alle discriminazioni come Elodie.

Big Mama e Giorgia, la bellezza non è una taglia

In uno spettacolo di grande ricercatezza e impatto estetico, tanti sono stati i contributi al necessario cambiamento di un archetipo di "bellezza" che produce danni irreparabili in molte persone, annientate dalla ricerca sovente impossibile di traguardi e "misure". Modelli la cui promozione si traduce in disturbi del comportamento alimentare, bullismo e body shaming (anche durante il festival c'è chi non ha resistito). Modelli contro cui combatte BigMama, splendida "dea", portabandiera del mondo queer, nei bustier e gonne di tulle, nel suo potente invito da un lato a non nascondere il proprio corpo, dall'altro a cambiare prospettiva: la bellezza non passa dalla bilancia o dai centimetri, ma è fatta di dettagli, cura e passione. Che si ritrovano nell'altra faccia della medaglia, Giorgia, poderoso scricciolo dalla voce incredibile, nel suo frac con shorts o nelle spalle ossute, esibite, nude e forti.

Mengoni, Bolle, i "Santi": la gonna, la danza, gli orecchini...

Vinca quindi, sempre, la bellezza. Dell'imperfezione e della perfezione, come quella ammirata in Roberto Bolle, statuario ambasciatore di una danza che comunica anch'essa un messaggio trasversale, affidato ad un corpo di ballo interamente maschile, che abbatte stereotipi e pregiudizi. Benvenga la bellezza fluida di Marco Mengoni, che porta la gonna di pelle con la stessa leggerezza irresistibile con cui porta i pantaloni, affrontando anche così il dismorfismo corporeo - eccessiva preoccupazione per i difetti fisici, e sembra paradossale in una persona con il suo aspetto - di cui ha confessato di soffrire e sdoganando le rigidità della comunicazione non verbale affidata al look tramandate nei secoli dei secoli, così come Alessandro De Santis dei Santi Francesi, con un paio di vistosi orecchini pendenti, o Mahmood che nella sua tuta d'oro inneggia alle differenze. E vinca, perchè no, anche la bellezza affidata all'immaginario più tradizionale, dal reggicalze di Annalisa, superfavorita regina delle hit, alle cubiste della parentesi dance di Gigi D'Agostino.
Perchè ogni libertà, convenzionale o meno, è preziosa.

La morte, la violenza (non solo di genere), il manifesto di Mannoia: la metà "è" l'intero

Potente, doveroso, frequente il riferimento esplicito al rispetto, alla violenza di genere e ai femminicidi. Il cast di Mare Fuori ha scandito le "parole dell'amore" ascolta, accogli, accetta, impara, verità, accanto, no, nel testo dello scrittore Matteo Bussola (oggetto di critiche social da cui si è difeso) e le Farfalle Azzurre si sono esibite con Mr Rain, mentre aleggiava, lieve e carica, la Mariposa di Fiorella Mannoia - presidente della Fondazione "Una. Nessuna. Centomila" - per un manifesto di orgoglio e libertà, dedicato alle "sorelle" e a chi non è la "metà" altrui, ma l'intero di sè. E la morte, non solo delle donne perchè donne, è stata evocata più volte sul palco di Sanremo, ricordando l'omicidio del giovane musicista Giogiò, o gli incidenti sul lavoro.

La rivalità e il meccanismo ribaltato

Di profondo impatto emotivo il meccanismo voluto da Amadeus nella seconda e terza serata, con la presentazione reciproca di artiste e artisti, un'evoluzione ulteriore e inattesa del principio di "dialogo intergenerazionale" attorno a cui ruota tutto l'impianto del festival: tra tutti Mannoia che presenta Geolier, Bertè presentata da Sangiovanni hanno offerto un grande esempio. In una serata delicatissima, quella del televoto da casa, l'impegno a mettere da parte rivalità e competizione su un palco in cui ogni gesto o parola fa la differenza, impegnandosi a presentare un o una concorrente, pronunciandone il nome con enfasi e invitando il pubblico al voto. Un modello fortissimo, un esempio che arriva dove non arriva un proclama, modella e plasma la percezione dell'altra persona e l'atteggiamento, l'approccio, fa capire che essere cordiali, amichevoli, non conflittuali non è un qualcosa di ideale o una pia illusione, ma può essere qualcosa di vero, reale. E ne abbiamo un disperato bisogno, di gesti così, lontani dal clima di denigrazione e sopraffazione, bullismo, odio sociale e social, come quello sofferto e raccontato da Alessandra Amoroso.

I sentimenti "buoni" di cui abbiamo bisogno

Un clima avvelenato che fa parte di molte quotidianità, e che come tale è stato rappresentato anche a Sanremo nell'esprimere un desiderio di cambiamento e resilienza. Un bisogno di accoglienza verso l'altro, il diverso, anche se sembra un ingombrante alieno venuto da un altro pianeta, come quello portato sul palco di Sanremo da Ghali, nato in Italia da genitori tunisini, per dire che ogni cosa vista dal cielo è uguale, che "casa mia è casa tua" e che è meglio restare "umani", come chi non teme di dispensare baci e pensieri a mamme, fratelli, papà, eccetera, in platea o altrove.

E fa bene al cuore ascoltare una persona duramente ferita, come la mamma di Giovambattista Cutolo, che perdona la città in cui il figlio è stato trucidato e regala fiori alla giustizia. O lasciarsi commuovere dalla poesia sublime di Giovanni Allevi con il suo inno a meravigliare e meravigliarsi, sempre, per le grandi cose senza dimenticarsi delle piccole, uno squarcio di vita reale, con i doni del dolore e della malattia tra le scintille dello spettacolo, con l'augurio di un domani più bello, in cui accettarsi come imperfetti, senza calcoli, perché non contano i numeri, le misure o i colori: ogni persona è unica, infinita.

Non è retorica, non è dolciastro, è un sapore gradevole che conforta, quello così umano della solidarietà, della flessibilità, dell'empatia: sentire le emozioni altrui, e quindi gioire se si procura gioia e soffrire se si provoca sofferenza, così da sapersi fermare. Un approccio aperto, rispettoso, che rischia pericolosamente di divenire minoritario, come racconta la quotidiana cronaca degli orrori, o un semplice giro sui social, luoghi neutri, anzi pieni di opportunità ma avvelenati da chi fa dell'odio un passatempo, o un mestiere. Grazie, Sanremo, per questi cinque giorni di spettacolo grande, in cui chi ha voluto ha trovato qualcosa da ricordare, tra leggerezza e profondità, svago e riflessione, risate e lacrime. Regalando quell'essenziale individuato sulla scena da ognuno a suo modo, puntando riflettori accesi che nessuno ha diritto di spegnere.

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