Era alla fine degli interminabili banchetti o anche delle mangiate improvvisate nelle cantine o nelle case che qualcuno ai tempi della mia infanzia e della mia giovinezza ad un certo punto diceva: «Adesso ci vorrebbe “roba in coccio”». Noci, nocciole, arachidi, ceci, lupini a cui quasi veniva affidato il compito di continuare a mangiare e a bere come se fosse l’«ultima volta». Mi viene in mente il valore alimentare, rituale, augurale, propiziatorio di semi, grani, bacche, proprio in questo periodo natalizio, quando in molti paesi della Calabria oggi, giorno di Santa Lucia, si prepara ancora la «cuccìa», un piatto a base di cereali e carni, la cui preparazione è molto elaborata, lenta e richiede una cura di giorni.
A Spezzano Sila per la festa di S. Francesco o nei paesi in prossimità di Cosenza, la «cuccìa» è ancora quella che Vincenzo Padula così descrive la preparazione della coccìa nei Casali del Manco (Serra, Pedace, Iotta). Il grano si mette a mollo in abbondante acqua il venerdì, il sabato lo si fa cuocere per 5-6 ore a fuoco lento. A parte si fanno bollire in acqua leggermente salata carne di capra e carne di maiale. Dopo la cottura del grano, si elimina l’acqua e si sostituisce col brodo di maiale nel quale i chicchi resteranno, sempre sul fuoco, per un’altra ora. Vincenzo Padula – uno dei più grandi studiosi delle culture popolari dell’Ottocento, autore di poesie, drammi, descrizioni etnografiche e inchieste di denuncia che anticipavano la letteratura meridionalistica – che aveva tracciato la geografia della fame e delle pratiche alimentari dei contadini e dei braccianti della provincia cosentina, cedeva nella «cuccìa» un piatto eccezionale in un contesto di precarietà.
La «cuccìa», preparata in diverse circostanze festive in Calabria (periodo natalizio), ma anche in Sicilia, Basilicata, Cilento, con cereali (grano, granturco, farro, ecc.), ma anche (a seconda delle località e delle ritualità) ceci, fave, cicerchie bolliti a cui talvolta si aggiungono carni di animali minuti, è un piatto povero e insieme elaborato, con antecedenti nel mondo antico. Vincenzo Dorsa (La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore, 1884) riconduce l’usanza di distribuire in Calabria il 13 dicembre, giorno di S. Lucia, grano o granturco bollito alla pratica di greci e romani di offrire alla divinità il farro, le fave, o altre «civaje cotte» delle Pianepsie ateniesi in onore d’Apollo, dio che portava a maturità i prodotti della terra. Era consumata in famiglia e distribuita agli amici, ai parenti e alle persone bisognose, che andavano a cercare l’elemosina. Nell’Italia e nelle Grecia antiche i cereali bolliti (orzo, farro), che costitituivano il puls, erano un elemento essenziale delle nutrizione. I greci bizantini chiamavano il piatto coucia, che rispondeva alla voce classica cuamos, cioé fava. Gerard Rohlfs, il grande studioso tedesco delle parlate e delle lingue della Calabria e del Sud, attribuisce l’etimologia al greco volgare «tà koukkìa» (chicchi) e critica l’opinione di quanti traducono con «fave arrostite». Egli parla di una «specie di minestra di grano bollito, condita spesso con vino cotto che si mangia in occasione di alcune solennità religiose». Le feste dei pastori, la distribuzione dei prodotti del suolo (frumento) rinvia alle feste campestri e pastorali dei Latini, nelle quali si offrivano agli dei prodotti dei campi e se ne assaggiavano nei sacri banchetti.
Il culto di Santa Lucia avrebbe, secondo Vincenzo Dorsa, un immediato riscontro con le Faunalia, che si celebravano alle none di dicembre (approssimativamente il 13): Fauno era il dio dei boschi e dei campi e anche il dio che prediceva il futuro, che rivelava in versi saturnii (Virgilio). Il contadino calabrese deduceva i pronostici delle stagioni a venire osservando l’andamento del tempo da S. Lucia a Natale: 12 giorni che egli chiama calènnule (Calendae) o journi cuntati, giorni cantati (celebrati), e credeva «che ciascuno di essi risponda in ordine progressivo a ciascuno dei mesi dell’anno che succede». Altra caratteristica della festa di S. Lucia è la distribuzione di fichi secchi ai poveri. Ad Altomonte fichi secchi e legumi d’ogni sorta, in numero di nove prodotti per farne le «nove cose» di Santa Lucia (le portate della vigilia di Natale erano anche nove, o, in altre zone, 13 o 24). A Rossano tredici per i tredici giorni del mese.
I calabresi, osservava Dorsa, invece di portare i cibi sulle tombe dei cari trapassati, li distribuiscono ai poveri. «Nel 2 novembre poi è generale l'uso di distribuire ai poveri fichi secchi, fave ed altri legumi, che in Paola si chiamano le juraglie d’i muorti; ricordanza romana, giacché i Romani nei conviti funebri usavano specialmente le civaje, e fave nere gettavano ai Mani nelle Lemurie per placarli e liberarsi dai terrori dei fantasmi.
A Cosenza si fanno regali di focacce ed insalate di lattuga e di altre erbe dette insalate dei morti. Anche questa è ricordanza dei banchetti funebri antichi». Ricordare i morti ogni lunedì del mese (’u primu lune) riporta all'usanza dei Greci che imbandivano le loro “cene di Ecàte” (Ekàtes deìpna) nelle neumenie o primo giorno del mese e le offrivano ai poveri.
Una eccezionale combinazione e mescolanza di alimenti, riti, tradizione, devozioni. Ma la «cuccìa» non porta solo lontano nel tempo, ma anche nei luoghi. Per quanto possa apparire sorprendente (ma non lo è se si tiene conto di un comune sostrato agropastorale e culturale arcaico e di analoghe vicende di cristianizzazione) la «cuccìa» è un piatto ancora oggi usato in una vasta area che va dal Mediterraneo ai Balcani alla Russia, preparato con «semi» (e bacche: ciliegie selvatiche, uva passa) o chicchi (noci, arachidi, nocciole). Il chicco ha la proprietà di conservare la vita a lungo, di riprodurla, di moltiplicarla. «Il noto circolo continuo seme-pianta-seme testimonia l’eternità della vita. Gli uomini, mangiando semi, divengono partecipi di questo processo. Al chicco o al seme corrisponde, secondo la mentalità contadina, l’uovo del mondo animale il quale ha la stessa sorprendente capacità di conservare, contenere la vita e di riprodurla». Tutti i popoli hanno utilizzato le uova, segno di immortalità, per i riti funebri e da noi per la Pasqua, festa della Resurrezione.
Ancora in Russia si osservava nell’Ottocento un altro rito consistente nel dare alle fiamme grandi falò dove venivano chiamati i defunti per scaldarsi. In Calabria, l’uso di accendere enormi cataste di legna attorno alle quali vegliare e banchettare fino a notte è ancora presente in tanti paesi e in tutti quelli a cui ho assistito (da inizio dicembre all’Epifania e poi da Carnevale a Pasqua) era evidente una sorta di celebrazione dei defunti, che venivano attesi e accolti attorno al fuoco dove si mangiava in abbondanza. In molte zone gli «strinari» andavano a cantare e suonare davanti alle case degli amici, auguravano felicità e prosperità, ma chiedevano prima garbatamente e poi in maniera insistita salami, formaggio, frutta secca, vino, dolci: figure «vicarie» dei defunti, che nelle feste di passaggio, rinnovamento, inizio anno, tornano per mangiare coi vivi (L. M. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, 1982).
La «cuccia», un piatto arcaico e del presente, “locale” e diffuso in una vasta area, continua, probabilmente a suggerire, oltre a storie di scambi, mescolanze, passaggi, anche storie di precarietà e, insieme, di fantasia alimentare. Il viaggio dal presente al passato, dall’oggi al mondo antico, è sicuramente pieno d'insidie, di rischi, di trappole. I rituali che prendiamo in considerazione sono ormai mutilati, amputati, disgregati, quando sopravvivono sono «spuntati» di molti elementi che un tempo ne costituivano le parti più significative. Dinnanzi a una sorta di «ritorno» a tradizioni, sempre reinventate e adattate al tempo presente, non si può avere un atteggiamento liquidatorio o, peggio, altalenante tra retorica e mitologia, indifferenza e rimozione. I resti, gli avanzi, le memorie del passato, che trovano un nuovo senso nel mondo presente, forse, alimentando nuove possibile pratiche alimentari, segnalano un bisogno di incontro tra persone rimaste, persone che tornano, persone che arrivano. E raccontano, forse, il ritorno alla terra, alla produzione agricola, a una cucina che significa anche festa, convivialità, bisogno di mangiare assieme.
Forse queste ricette, di un mondo sommerso, che a volte riaffiora in maniera impensabile, attestano l’ineliminabile bisogno di continuare a mangiare con i defunti, con gli altri, con quelli che sono andati via, e anche a dialogare con loro. Ricordandoci che vivi e defunti, rimasti, emigrati e immigrati, partecipano di una stessa vicenda del mondo e del cosmo.
Scopri di più nell’edizione digitale
Per leggere tutto acquista il quotidiano o scarica la versione digitale.
Caricamento commenti
Commenta la notizia