Nel Belpaese delle piccole patrie, 160 anni dopo l’Unità ci interroghiamo ancora se davvero si possa ritenere compiuta l’unificazione dell’Italia. Tutte le tumultuose narrazioni sul tema dicono che se dopo più di un secolo e mezzo la diversità di sviluppo Nord Sud è rimasta invariata, il riscatto civile del Sud (l’unità vera) non si può dire raggiunto, e l’articolo 3 della Costituzione, che impone la rimozione degli ostacoli dell’uguaglianza dei cittadini, senza distinzioni di sesso, lingua, religione, condizioni sociali e personali, finora non è stato rispettato.
Il tempo giusto però parrebbe finalmente arrivato: ora, o mai più. L’occasione del Recovery Plan è unica, irripetibile. Col Governo di salvezza nazionale la questione meridionale sempre trascurata con la scusa dell’esiguità delle risorse farà il tagliando: l’ultimo. O si avvia a soluzione o passerà alla storia come questione permanente, irrisolvibile. Il premier Draghi ha dedicato solo 11 righe al Sud, nel discorso d’insediamento in Parlamento, e ha usato parole misurate e prudenti. Tuttavia, se ha un senso il riferimento fatto allo spirito del dopoguerra, è giusto attendersi, per il Sud, lo stesso impegno che ebbero i primi governi repubblicani nel dopoguerra.
Un richiamo a quell’epoca straordinaria e positiva c’è anche nel documento che la Svimez ha inviato al presidente del Consiglio per rammentargli che è questo il momento, per accorciare l’abisso che negli anni si è formato tra il Nord e il Sud, soprattutto a livello infrastrutturale. Tra i firmatari ci sono anche Vincenzo Scotti e Sergio Zoppi, un ex politico e uno storico e meridionalista che recentemente al tema delle disuguaglianze italiane hanno dedicato un libro: Governare l’Italia, da Cavour a De Gasperi, a Conte (Eurilink), con l’intento di offrire spunti concreti per l’oggi.
Partendo dall’Unità d’Italia, Scotti e Zoppi mettono a fuoco la ricostruzione del Paese nel secondo dopoguerra. In quegli anni, governi e classe dirigente nazionale furono chiamati a scegliere come utilizzare gli aiuti americani, e contestualmente affrontare la questione meridionale, nata con l’Unità. C’è una figura centrale nel racconto, quella di Giulio Pastore, sindacalista, fondatore della Cisl e ministro, chiamato dal Governo Fanfani, nel 1958, a presiedere il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. Con lui si avviò l’attività che portò il Mezzogiorno a risultati positivi mai raggiunti prima, che durarono fino a quando, con l’istituzione delle Regioni, nel 1970, scomponendosi la strategia governativa unitaria, seguì la sparizione della storica “questione” dall’agenda del Paese. La proposta di Scotti e Zoppi è di ripartire da lì, richiamando lo spirito di quelle politiche del dopoguerra, che sono ancora attuali, e inserirle in un disegno unitario di crescita dell’Italia che faccia del Mezzogiorno la leva per l’Europa mediterranea.
Se è possibile definire un serio progetto per la “ricostruzione” dell’economia italiana, tenendo in primo piano l’esigenza di crescita del Sud, è l’interrogativo che pongono Luca Bianchi, direttore della Svimez, e Antonio Fraschilla, giornalista di “la Repubblica”, nel libro Divario di cittadinanza: un viaggio nella nuova questione meridionale (Rubbettino), resoconto di un “pellegrinaggio” nei luoghi simbolici del Mezzogiorno, nelle città dimenticate, come Gela, allo scopo di raccontare che cosa rimane del sogno industriale meridionale degli anni 50. Il libro è anche denuncia della cecità delle politiche nazionali che, tra tagli di spesa e di investimenti, hanno indebolito la capacità competitiva del Mezzogiorno. Bianchi e Fraschilla smentiscono la vulgata di un Sud inondato di risorse, e rimandano piuttosto ai principi costituzionali traditi in materia di sanità, istruzione, pari opportunità e possibilità di fare impresa al Sud; principi non rispettati in maniera omogenea nel Paese. Ma il loro è anche un interrogarsi su cosa fare. Con idee nuove, ma recuperando il vecchio, non solo per il Sud.
Un’idea viene da uno studio-progetto realizzato a più mani, pubblicato da Donzelli, dal titolo Riabitare l’Italia, le aree interne tra abbandoni e riconquiste (a cura di Antonio De Rossi) che invita a guardare all’Italia muovendo dai margini e dalle periferie. Dall’Italia del margine, che ha dentro di sé le montagne emiliane e zone interne del Nord, ma ha soprattutto i territori del Sud: siciliani, calabresi, pugliesi, lucani. Ha i borghi prima di tutto, territori che a volte sono esempi virtuosi come Riace, in Calabria, e non solo, dove si reinventano i luoghi. È necessaria un’inversione di rotta per «riabitare l’Italia», scrive Fabrizio Barca nell’ultimo capitolo, suggerendo anche la nascita di un forte movimento politico per far rivivere l’Italia del margine. Ma il Sud è attrezzato culturalmente a “invertire lo sguardo”?
C’è molta diffidenza naturalmente, ma sembra rispondere a questo interrogativo un libro a cura di Pietro Greco, Mezzogiorno di scienza (edizioni Dedalo) che in quattordici ritratti di grandi scienziati meridionali, ricorda che nel Mezzogiorno sono nati studiosi che hanno dato un importante contributo al progresso del Paese: dalla chimica Maria Bakunin a Stanislao Cannizzaro ( il “pesatore” degli atomi), a Filomena Nitti, che sfiorò il Nobel, a Ettore Majorana, Renato Dulbecco, a cui il Nobel fu assegnato. L’obiettivo è osservare il Sud da un angolo particolare, per dimostrare che l’orticello meridionale non è un deserto pietroso, anzi è più che mai fertile.
Quando si torna alla realtà, la storia del Sud si materializza, però, inevitabilmente, come la storia di generazioni obbligate a partire, e in Gli spaesati, cronache del nord terrone (Zolfo edizioni) Enzo D’Antona, giornalista, siciliano di Riesi, riprende il tema delle partenze raccontando l’epopea senza tempo delle braccia e dei cervelli in fuga, ieri come oggi: operai, insegnanti, professionisti che subiscono una condizione permanente di spaesamento. Il racconto dei ragazzi siciliani che, nelle città del Nord, incrociano i grandi mutamenti della società italiana, è la narrazione di vicende spaesanti che hanno l’immagine delle radici strappate, generazione dopo generazione. Ma il finale è unico e non spaesante: «La Sicilia dentro di noi non finirà mai».
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