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Neet: in Italia il 23% dei giovani non studia e non lavora. Calabria e Sicilia maglia nera

L’Italia veste la maglia nera nell’Unione europea in fatto di numero di giovani che non sono né studenti né lavoratori, i cosiddetti Neet. Un recente Rapporto del Censis sui processi formativi e sul sociale ci dice - alla vigilia della Giornata mondiale dell’istruzione proclamata dall’Onu per martedì 24 - che la lenta decrescita dei Neet, interrottasi però nel 2020, non offre significativi segnali di ripresa nel 2021, essendo questo collettivo di 15-29enni pari al 23,1%, a fronte del 23,7% dell'anno precedente e di una media Ue 27 del 13,1%.

Alle spalle dell’Italia si colloca la Romania (20,3%), quindi la Bulgaria (17,6%) e la Grecia (17,3%), e molto distanti sono i Paesi Bassi e la Svezia, che sono gli Stati comunitari con il minor numero di Neet al loro interno (5,5% e 6,0%, rispettivamente). Nel dettaglio dei confini nazionali, i Neet nostrani sono maggiormente presenti nelle regioni meridionali, in alcune delle quali viene superata finanche la soglia del 30% (Campania 34,1%, Puglia 30,6%, Calabria 33,5% e Sicilia 36,3%) ma si tratta comunque, come già notato l’anno prima, di una realtà fluida.

Infatti, i maggiori incrementi di Neet si sono registrati in alcune regioni del Nord, dove invece solitamente la loro incidenza risultava inferiore: il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia hanno riportato incrementi su base annua di +1,9 e +2,5 punti percentuali. Diversamente, proprio nelle regioni a più alta incidenza di Neet si sono verificati i decrementi più apprezzabili: Sicilia e Sardegna (-2,1 e -2,5 punti percentuali, rispettivamente).

Il Censis ci dice anche che la comparazione tra l’Italia e alcuni Paesi Ocse rispetto alle quote di popolazione che hanno conseguito un diploma di scuola secondaria di II grado o un titolo di istruzione terziaria ancora una volta si caratterizza per una minore incidenza - in conseguenza anche della minore disponibilità di corsi terziari a ciclo breve e professionalizzanti - di individui con titolo terziario e per una più bassa scolarizzazione delle classi di età più avanzate. La quota di italiani tra i 25 e i 34 anni in possesso di un diploma è infatti pari al 76,8% (a fronte di una media Ocse di 85,8%), mentre tra i 25-64enni i diplomati sono il 62,7% (a fronte di una media Ocse di 83,2%). A una media Ocse del 46,9% di 25-34enni in possesso di un titolo terziario corrisponde, invece, una quota del 28,3% di coetanei italiani con pari titolo. E sulla platea dei 25-64enni, tale quota si riduce ulteriormente, il 20,0% contro una media Ocse del 41,1%.

Sono 5.432 percorsi di studio universitari, +534 in 10 anni

L’interazione tra le università e i loro territori viene peraltro considerata prioritaria anche dalla stessa agenda politica. Tanto è vero che che lo stesso Decreto legge 152/2021, che prevede disposizioni urgenti in attuazione del Pnrr, stanzia per il periodo 2022-2025 risorse per 290 milioni di euro per l’attuazione da parte degli atenei di Basilicata, Calabria, Puglia e Sicilia di 'Patti territoriali" dell’alta formazione per le imprese, attraverso i quali gli atenei potranno stipulare accordi con soggetti privati e pubblici per programmare un’offerta formativa più aderente ai bisogni del territorio e a quelle filiere produttive in cui è stata riscontrata una mancata corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro. Un ulteriore fronte di sperimentazione e investimento degli atenei è rappresentato dalla innovazione dell’offerta curricolare, attraverso un’offerta formativa fatta di nuovi corsi di laurea che guardano alle nuove sfide per il futuro come sostenibilità, digitalizzazione, nuovi materiali, ecc. (e riguarda finora 50 atenei) e la proposta di corsi di laurea interdisciplinari (45), per formare nuovi profili con conoscenze in grado di fronteggiare la complessità d’oggi. Tra le strategie attrattive messe in campo dalle università verso le future matricole emergono misure per creare le condizioni per un effettivo diritto allo studio, anche se in proposito il loro raggio di azione sia limitato e condizionato da scelte e investimenti decisi dalle istituzioni statali e regionali e da un sistema di diritto allo studio che, nonostante gli incrementi di risorse degli ultimi anni, ancora non garantisce uniformità di trattamento a livello nazionale. E le agevolazioni sulle tasse di iscrizione universitarie (47) e la riqualificazione e ampliamento dell’edilizia residenziale universitaria (41) sono segnalati tra le tipologie di interventi di questa fattispecie.

Analoga distribuzione anche con riferimento all’anno accademico 2021/2022, con 49 nuovi corsi sia nell’area giuridica e sociale, sia in quella delle discipline Stem (a fronte di 21 nell’area artistica, letteraria e dell’insegnamento e di 28 nell’area sanitaria e agro-veterinaria). Tra il 2011 e il 2021 si è così registrato un incremento complessivo dei corsi di laurea del 10,9%. Quanto ai corsi di laurea magistrale, sono questi con +17,7% ad evidenziare il maggiore incremento, in quanto percorsi di formazione avanzata che evolvono in funzione dei fabbisogni espressi dal mercato del lavoro. Seguono i corsi di laurea magistrale a ciclo unico, aumentati del +16,4%, mentre le lauree del primo ciclo di istruzione universitaria sono aumentate del 4,4%. Considerando, infine, solo l’offerta formativa per chi si iscrive la prima volta a un percorso di studi universitario (corsi di laurea e corsi di laurea magistrale a ciclo unico) l’incremento si arresta a +5,8% di corsi. Il Censis ci dice anche che è a partire dall’anno accademico 2017/2018 che si rileva su base annua un progressivo incremento del numero dei corsi con la più alta variazione positiva (+2,9%) nell’anno accademico 2020/2021, fino a quando sono continuate a crescere le immatricolazioni, che sono, invece, diminuite del 2,8% nell’annualità successiva. Questi dati quantitativi che parlano di un quadro di offerta in continua evoluzione sono «l'indizio dello sforzo compiuto dal sistema universitario nazionale oltre che per adeguare la propria offerta di istruzione ai tempi che cambiano anche per accrescerne l’attrattività nei confronti dei potenziali destinatari». E questo, del resto, emerge anche da una rilevazione che il Censis ha condotto su 58 atenei italiani nel giugno scorso, dove l’innovazione dell’offerta curricolare emerge come uno, ma non l’unico, dei possibili attrattori della domanda di istruzione universitaria.

In Italia lo stipendio dei docenti è sotto media Ue

Gli insegnanti italiani guadagnano meno dei colleghi dell’Ue e, a parità di titolo di studio, il loro stipendio registra comunque un divario rispetto a quello degli altri dipendenti della pubblica amministrazione. Emerge dai dati pubblicati nel rapporto "Education at a Glance 2022" a cura dell’Ocse e dal rapporto semestrale Aran sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Risulta che in Italia un docente di scuola superiore guadagna il 22% in meno rispetto a un lavoratore di un altro settore con lo stesso titolo universitario, circa 350 euro in meno al mese. Le cose non migliorano ampliando l’orizzonte geografico. Un insegnante italiano riceve a fine mese meno della metà di un suo collega tedesco. I docenti italiani della primaria sono quelli che presentano i divari più consistenti anche in termini percentuali rispetto ai colleghi europei. Secondo la ricerca Ocse, infatti, la differenza tra gli italiani e i colleghi europei è marcata in tutti i gradi di scuola, a partire dalle retribuzioni della primaria la cui differenza rispetto alla media degli omologhi europei è del 15,7%, ossia 6.286 dollari. La distanza tra i docenti di scuola media di primo grado scende al 14%, mentre i docenti della scuola superiore percepiscono il 12,7% in meno rispetto alla media dell’Unione.

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