C’è sempre quell’amara consapevolezza della strada impervia e ancora lunga da percorrere, quando si parla della violenza sulle donne. Sebbene qualcosa sembra si stia muovendo verso una maggiore consapevolezza del fenomeno e della necessità impellente di contrastarlo in maniera decisa, tout court. Questo flebile ottimismo è emerso timidissimo da «Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza sulle donne», tema di un’indagine condotta dall’Istat, con il contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, i cui dati – ancora parziali – sono stati presentati e analizzati ieri, nel corso di un convegno tenutosi nell’aula magna dell’Istat, a Roma. Un meeting arricchito dagli interventi di una serie di attori istituzionali ed esperti di prevenzione. Iniziata a maggio 2023, l’indagine ha coinvolto un campione di circa 15mila individui, di età compresa tra 18 e 74 anni, e non è ancora terminata. «Una donna su tre ha subito almeno un atto di violenza nel corso della sua vita. La prevenzione è una condizione essenziale per porre fine a questa ferita sociale – ha detto Francesco Chelli, presidente dell’Istituto di Statistica, introducendo i lavori – la conoscenza accurata e la disponibilità tempestiva di informazioni permettono di costruire strategie di prevenzione che intervengono fin dall'origine della catena. La prevenzione è anche l'unica strada percorribile – ha proseguito Chelli – perché la violenza cresce su radici culturali e sociali precise che sono basate sulla persistenza di stereotipi di genere capillari e insidiosi che vanno riconosciuti e sradicati». La prevenzione è anche educazione al rifiuto degli stereotipi di genere. E quando si parla di educazione, ci si riferisce specialmente alla scuola. «Affrontare con bambini, bambine e adolescenti i temi dell’educazione al rispetto, fornendo la possibilità di sperimentare un ambiente accogliente e non giudicante – ha dichiarato durante il suo intervento la dirigente scolastica Clara Rech – consentirà loro di procedere verso una destrutturazione dei ruoli e delle relazioni basate su stereotipi per poter sperimentare modalità di relazione con sé stessi e con l’altro, fondate su criteri di libertà e responsabilità. E di costruire una società accogliente, inclusiva e non violenta». La cronaca corre veloce e i casi di femminicidio purtroppo non si fermano. E un dato dell’indagine Istat che fa ben intendere come si debba agire alla radice di stereotipi e modelli culturali sbagliati riguarda il 39,3% di uomini convinto che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. E a ruota, un 19,7% di uomini che asserisce che la violenza sia provocata dal modo di vestire, a cui fa eco il 14,6% di donne. Sono dati che portano dritto verso quell’assurdo stereotipo che vuole la donna responsabile della violenza sessuale subita. Tra le altre possibili cause, figurano anche la considerazione della donna come oggetto di proprietà (83,3%), il bisogno dell’uomo di sentirsi superiore alla moglie/compagna (75,9%) e la difficoltà dell’uomo a gestire la rabbia (75,1%). Per fortuna, viene fuori che parlare degli episodi di brutalità sia fondamentale per prendere coscienza della gravità del fenomeno. Se ne parla perché si è attenuata la vergogna di aver subito violenze, come testimonia il 31,4% di donne intervistate. Perché i media informano di più (23,2%) e si sono moltiplicate le iniziative di sensibilizzazione e servizi a favore delle vittime (15,8%). Dai dati Istat emerge anche poca tolleranza della violenza fisica nella coppia, sebbene un 16,1% di giovani, dai 18 ai 29 anni, dichiara di accettare il controllo abituale dell’uomo su smartphone e canali social della moglie/compagna. Sentore di un senso del dominio ancora radicato che sfocia in maniera inqualificabile in quel 2,3% che ritiene accettabile sempre o in alcune circostanze che «un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha civettato/flirtato con un altro uomo». In tema di prevenzione, un compito fondamentale appartiene alla magistratura. «Due parole chiave sono presenti tra le altre nel nostro percorso – ha detto Margherita Cardona Albini, magistrato e Vicecapo Dipartimento per gli affari di giustizia del ministero di Giustizia – e sono il fattore tempo e il fattore rischio. Tutta la legislazione processuale sul tema della violenza di genere è basata sul fattore tempo. Il tempo della conoscenza di maggiori elementi possibili su un determinato profilo della persona e della famiglia consente al giudice civile, prima del penale, di intervenire con strumenti di protezione, con la messa in sicurezza dei minori. In modo immediato prima che la tragedia si consumi». La strada è ancora lunga. L’azione deve essere repentina e non tradire tentennamenti. Una sfida sociale che coinvolge tutti. E di cui tutti dobbiamo sentire peso e responsabilità.