Appena venne assunta, «la socia e amministratrice della società le consegnò un clistere con la prescrizione di utilizzarlo, le impose una dieta ipoglicemica affinché potesse dimagrire e indossare una divisa di taglia media o small, la costrinse a sottoporsi a sedute di massaggi sul luogo di lavoro che lei stessa praticava, le impose degli esami del sangue e le chiese la password per consultarli con la scusa di darle un consiglio in presenza di eventuali anomalie». Per la Corte di Cassazione-sezione lavoro, che ha pubblicato questa sentenza nei giorni scorsi, la donna è stata vittima di "straining", cioè è stata messa sotto pressione dal comportamento stressante da parte del datore. Gli "ermellini" hanno confermato la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che aveva condannato la società a versarle 12.500 euro per il danno biologico e quello morale. Da una relazione medica risultava che la donna soffrisse di depressione a causa del comportamento del suo capo Il caso arriva all’epilogo a diversi anni di distanza dai fatti che risalgono al 2013. Dalla ricostruzione dei giudici, basata anche su tre testimonianze e su una mail inviata dall’accusata «per sbaglio all’indirizzo di posta aziendale in cui l’oggetto era indicato in 'cerobrolesì e nel suo contenuto si parlava della dipendente», emerge che la donna e altre lavoratrici «furono vittime di condotte vessatorie e lesive della loro dignità personale e professionale che si erano concretizzate in invadenze inaccettabili da parte della superiore gerarchica nella propria sfera intima e personale fino a culminare in denigrazioni e umiliazioni». Nella sentenza diffusa dallo Studio Cataldi e letta dall’AGI, c'è scritto anche la vittima dello straiming veniva «spesso accompagnata in uno stanzino e lì trattenuta dalla collega più anziana». La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società per la quale lavorava la donna che è stato ritenuto «in parte inammissibile e in parte infondato a fronte dell’"ampia motivazione dei giudici di secondo grado".