Santo Stefano di Camastra, la Città della ceramica: “C'è sempre stupore, e c’è orgoglio nello scoprire d’essere stati scoperti”
«Di dove sei?». «Non lo conosci sicuro, è un paesino piccolo piccolo». «Ma come si chiama?». «Santo Stefano di Camastra». «Ah, la Città della ceramica!». Ecco. Sarà capitato mille mila volte che andasse così. Che ci sentissimo abitanti di un minuscolo mondo sconosciuto e che invece fossimo d’un tratto richiamati alla realtà di una certa fama inaspettata. C'è sempre stupore, e c’è orgoglio nello scoprire d’essere stati scoperti. E quella traccia di dialogo è il canovaccio di una storia scritta e riscritta. Che poi continuava quasi sempre allo stesso modo... «Passavo sempre quando non c’era ancora l’autostrada». È vero. C’erano giorni, a Santo Stefano di Camastra, che non finivano mai. Notti sveglie, di negozi aperti senza sosta, luci accese porta dopo porta. Luci accese e attese. Un presepe di viandanti, passanti obbligati dall’unica via possibile: quella Statale 113 che se viaggiavi sulla costa tirrenica non potevi non percorrere. Qualcuno pensava che il centro fosse tutto lì. Era quasi il millennio scorso, poi cambiò. «Adesso spariremo». «Questo collegamento ci scollegherà». E invece no, non proprio. Perchè l’obbligo si è trasformato in scelta e la gente ha continuato ad arrivare, ma consapevole. Eppure, me le ricordo già da bambina quelle notti. Me le ricordo da prima di nascere, si tramandano nella memoria di generazioni e generazioni le tradizioni dei nostri nonni siciliani, greci, romani. Come un codice che scorre nel sangue, che imprime il carattere. La verità è che tutti a Santo Stefano, in un modo o nell’altro, lavorano la ceramica. Che sia con le mani nell’argilla, quando porti in giro gli amici che vengono a comprare ricordi, quando la scegli per un regalo, quando la racconti giusto per dire chi sei. All’ingresso c’è un cartello d’identità: “Santo Stefano di Camastra Città delle ceramiche”. Sa di avvertimento, t’introduce lo sguardo su quello che ti aspetta. C'è che poi arrivi e ti circonda, la ceramica. Nei nomi delle vie, sui numeri delle case, tra le insegne dei negozi, sulle panchine, negli archi, nelle teste dei mori coi loro volti bruni, sui pannelli che fanno epici i muri. Al vecchio cimitero, nella nuova stazione. Nei prospetti e nelle prospettive. Dalla prima fabbrica all’ultimo laboratorio. La nostra è storia impastata, tornita. Insegnata e risaputa. Persino Pirandello l’ha tracciata (“Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa”). Ricordo anche i giorni dopo quelle notti. Le ceramiche che hanno cominciato a viaggiare, a fare giri immensi, mondiali, come oggetti immateriali, contenitori, vettori d’arte. Quello che la crisi ha tolto, innovazione e intraprendenza in qualche modo l’hanno restituito. C'è scritto all’ingresso che Santo Stefano di Camastra è la Città della ceramica. È una promessa, sa di nostalgia e di speranza.