Lunedì 23 Dicembre 2024

Formare una umanità più umana: ecco la sfida dell'istruzione

“Gli scolari”. Felice Casorati, (1927-1928), olio su tavola, cm 169 x 151 Palermo, Galleria Civica d’Arte Moderna

Non solo di pane vive l’uomo. Io, se avessi fame e fossi senza forze per la strada, non chiederei un pane; ma chiederei mezzo pane e un libro»: con parole semplici, come sanno fare i grandi poeti, Federico García Lorca ci fa capire il grave pericolo di cui ancora la nostra società non ha preso coscienza. Durante i mesi più difficili della pandemia, infatti, molti governi europei avevano scelto di lasciare aperti i supermercati e di serrare, senza nessuna esitazione, le porte a librerie e biblioteche, scuole e teatri. Nel 1931, cinque anni prima di essere barbaramente assassinato dalle milizie franchiste, il celebre scrittore spagnolo –in occasione dell’inaugurazione della biblioteca cittadina del suo piccolo paese natale, FuenteVaqueros, a pochi chilometri da Granada – tesseva un potente elogio dei libri come nutrimento essenziale dello spirito. Un commovente discorso che, in maniera profetica, richiamava l’attenzione sull’importanza della cultura e dell’istruzione per formare buoni cittadini al servizio di una comunità solidale: «E da questo punto di vista – aggiunge García Lorca - io attacco violentemente coloro che parlano soltanto di rivendicazioni economiche senza mai neppure nominare le rivendicazioni culturali reclamate a gran voce da ogni popolo. È giusto che tutti gli uomini abbiano da mangiare, ma è altrettanto giusto che tutti gli uomini abbiano accesso al sapere. […] Io provo molta più compassione per un uomo che vuole sapere e non può, piuttosto che per un affamato. Poiché un affamato può facilmente placare la sua fame con un pezzo di pane o con un frutto, ma un uomo che ha fame di sapere e non ha possibilità di soddisfarla soffre una terribile agonia, perché egli necessita di libri, molti libri. E dove può trovarli? Libri, libri! È questa una parola magica, che equivale a dire: amore, amore! Una cosa che i popoli dovrebbero chiedere, così come chiedono il pane o come invocano la pioggia per i loro campi seminati». Nessuno oggi mette in discussione l’importanza della scuola e dell’università per nutrire lo spirito dei nostri studenti, delle giovani generazioni che dovranno misurarsi con le grandi sfide del futuro. Eppure, dispiace dirlo, si tratta solo di un riconoscimento a parole che purtroppo non trova nessun concreto riscontro nelle scelte politiche degli ultimi lunghi decenni. I tagli all’istruzione, infatti, hanno messo scuole e università quasi in ginocchio. Ma, oltre al disimpegno economico dello Stato, c’è ancora qualcosa di più grave: l’accettazione passiva di un pericoloso processo globale di “mercantilizzazione” dell’educazione. In tantissimi Paesi ormai, scuole e atenei sono sempre più asserviti a parametri aziendalistici che puntano a formare “polli di batteria”, futuri consumatori passivi, soldatini seriali privi di qualsiasi pensiero critico. Basta rileggere «Tempi difficili» (1854) di Charles Dickens per intravedere i pericolosi germi di una concezione utilitaristica e mercantilistica dell’istruzione. Siamo a Coketown, nel Regno Unito. Una città industriale in cui contano solo i fatti, i soldi, la produzione e il mercato: «Fatti, fatti, fatti ovunque nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti ovunque in quello spirituale. La scuola di M’Choakumchild era solo fatti, la scuola di disegno era solo fatti, le relazioni fra padroni e operai erano solo fatti e tutte le cose erano fatti, tra l’ospedale dove si nasceva e il cimitero, e ciò che non si poteva tradurre in cifre o che non si poteva acquistare più a buon mercato o vendere al prezzo più alto, non esisteva e non avrebbe mai dovuto esistere, nei secoli dei secoli, amen». All’interno di questo alienante contesto anche la scuola viene piegata a servire gli interessi della produzione e del profitto. Nelle parole del grasso banchiere Bounderby e del pedagogo Gradgrind si intravedono le linee direttrici di un’istruzione tesa a combattere tutto ciò che si oppone alla concretezza dei fatti e al mercato. Nemico di un insegnamento aperto all’immaginazione, ai sentimenti, agli affetti, a ogni forma di curiositas, Gradgrind viene presentato «con una riga, una bilancia e la tavola pitagorica sempre in tasca», pronto «a pesare e a misurare qualunque particella della natura umana e a dirvi esattamente a quanto ammonta». Per lui, l’educazione e la vita si riducono a «pura questione di cifre». Così come i giovani alunni vengono considerati «piccoli recipienti che dovevano essere colmati di fatti». Profetiche parole che anticipano in maniera eclatante ciò che sta accadendo in Italia e nel mondo intero sull’onda di un neoliberismo rapace. Gli studenti vengono indotti a credere che bisogna studiare per conseguire un diploma, per poi spenderlo nel mondo del lavoro con l’obiettivo di guadagnare tanti soldi. Le regole vengono dettate da Agenzie internazionali (Banca Mondiale, Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, Organizzazione mondiale del commercio!), composte anche da organismi che hanno interessi economici ben precisi. Il rischio è sotto gli occhi di tutti: gran parte di professori e ricercatori sono incoraggiati a scalare classifiche. Così la valutazione (che in sé va considerata legittima e necessaria) non si limita a misurare, ma orienta la futura direzione della ricerca e dell’istruzione. Alla base di ogni scelta c’è sempre la priorità del “business”: ottenere finanziamenti, occupare le vette delle graduatorie, ricevere attestati di eccellenza. Dalle scuole elementari ai grandi laboratori, profitto e mercato sono ormai le parole chiave. Ogni anno leggo ai miei allievi una stupenda poesia di Konstantinos Kavafis, dedicata al mito di Ulisse, per far capire loro che non conta tanto la meta (ritornare ad Itaca), ma le esperienze che si vivono durante il viaggio: «Tienila sempre in mente, Itaca./ La tua meta è approdare là./ Ma non far fretta al tuo viaggio./ Meglio che duri molti anni». I giovani del Sud, attraverso l’istruzione, avevano compiuto un salto culturale straordinario. Ma oggi, purtroppo, scuole e università non sono più ascensori sociali. Sarebbe un grande errore investire i finanziamenti del PNRR solo nel digitale. Cablare istituti e atenei non basta. La buona scuola la fanno soprattutto i buoni professori. Per questo bisogna ridare dignità economica alla professione dell’insegnante e, nello stesso tempo, destinare fondi per garantire una solida formazione. Ogni giorno in un piccolo borgo di Calabria e di Sicilia o in una perduta capanna africana si compie un grande miracolo: appassionati maestri, in silenzio e lontano dai riflettori, cambiano la vita dei loro studenti. Senza l’amore disinteressato per la cultura sarà difficile immaginare un’umanità più umana.

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