Le Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra del Novecento realizzarono il superamento – dopo il crollo delle dittature nazifasciste – sia del liberalismo elitario e autoritario ottocentesco sia della dittatura collettivistica di stampo sovietico. L’intento dei nuovi Costituenti fu quello di costruire un sistema istituzionale in grado di dare forma alla sintesi dinamica dei due pilastri del costituzionalismo moderno: la libertà e l’eguaglianza. I primi due esempi pratici di questa nuova tendenza furono le Costituzioni italiana del 1948 e tedesca del 1949. Molte altre seguirono nei decenni successivi. Tradizionalmente questi due valori furono visti in contrapposizione tra loro: l’aumento dell’eguaglianza era ritenuto causa di diminuita libertà e viceversa. Per lungo tempo si sono fronteggiate le due opposte prospettive del comunismo e del liberismo e si sono escogitate e tentate alcune vie di mezzo (le socialdemocrazie) o si sono sperimentate le soluzioni estreme (il comunismo sovietico o il liberismo inglese manchesteriano o americano pre-roosveltiano). Si trattava di regimi tra loro molto diversi, il cui scontro ha dato luogo a grandi tragedie nel XX secolo. Al di là delle profonde differenze, vi era un tratto che accomunava le forme di governo della modernità, conservatrici o rivoluzionarie che fossero: il fondamento del potere era l’autorità, incarnata – nei suoi organi costituzionali supremi – di fronte ai cittadini, dallo Stato. Le teorizzazioni marxiste sull’estinzione dello Stato furono ben presto tradite dalla prassi politica e istituzionale dello stalinismo, che rimase come impronta di fondo per tutta l’esistenza dell’Unione Sovietica, sino alla fine nel 1991. Il nuovo costituzionalismo della seconda metà del Novecento non ambiva a prefigurare un “regime” compiuto o a preservare un ordine esistente, ma faceva di meno e di più: fissava una ricca costellazione di valori – che si presentavano come princìpi aventi natura giuridica – la cui concretizzazione era lasciata alle forze politiche del futuro. A queste ultime non si rivolgevano semplici esortazioni ideali e morali, ma si imponeva di percorrere strade determinate, con i mezzi ed i tempi che le circostanze avrebbero reso possibili e praticabili agli occhi dei temporanei detentori del potere. Alla fine degli anni ’40 del XX secolo faceva la sua comparsa, in Italia e in Germania, il fondamento di valore dello Stato, che si sostituiva al vecchio fondamento di autorità, come fu acutamente colto da un filosofo del diritto che insegnava nell’Ateneo messinese, Rodolfo De Stefano. La forza giuridica dei princìpi era legata al carattere rigido della Costituzione, la cui effettiva osservanza era garantita da una nuova istituzione di vertice: la Corte costituzionale. Il ruolo di quest’organo – concepito in stretta connessione con i giudici comuni, sull’esempio della Corte suprema americana – è proprio quello di controllare la legislazione dello Stato e delle Regioni, per rimuovere dall’ordinamento le leggi che risultano in contrasto con la Costituzione, a cominciare dalle sue disposizioni di principio. Il Parlamento non è più assolutamente libero nelle sue scelte politiche, ma incontra due ordini di limiti: negativi e positivi: negativi, perché non può emanare leggi in contrasto con la Costituzione, positivi, perché la legislazione ordinaria deve dare attuazione ai princìpi costituzionali. La mancata attuazione determina la cosiddetta incostituzionalità per omissione, oggi addirittura prevista in modo esplicito in alcune Carte costituzionali, come quella portoghese del 1974, ma implicita nella natura generale dei princìpi. Come si vede, il ruolo dei giudici aumenta considerevolmente nel costituzionalismo contemporaneo, giacché sono proprio essi che vengono chiamati a sollevare, davanti alla Corte costituzionale, le questioni di legittimità costituzionale nascenti dalla constatata difformità, per eccesso o per difetto, tra la legge ordinaria che devono applicare e una norma costituzionale. Proprio questo legame tra giudici comuni e giudice costituzionale aveva sollevato perplessità, in Assemblea Costituente, tra i liberali della vecchia scuola (come Vittorio Emanuele Orlando) e i comunisti (come Palmiro Togliatti). La critica di entrambi si appuntava sulla possibilità che veniva data ai giudici di “ribellarsi” alla legge, intaccando così la supremazia del Parlamento composto dai rappresentanti del popolo. Il principio della separazione dei poteri, pietra angolare dello Stato liberale, veniva portato alle sue logiche conseguenze. Se la Costituzione è lex superior (higher law, secondo la terminologia anglosassone) è necessario che vi sia un giudice che la fa applicare e se si vuole evitare che il giudizio di costituzionalità si svolga in astratto, in un puro confronto di concetti, occorre far partire le questioni dalla concretezza della controversie – civili, penali, amministrative – che si instaurano davanti ai giudici, come effetto del fluire dei rapporti economici e sociali. Il nuovo quadro costituzionale imponeva il superamento del semplice orizzonte della legalità (conformità alla legge) per indicare un più ampio orizzonte di giustizia, verso il quale ci si può muovere ampliando contemporaneamente i margini di libertà e di eguaglianza dei cittadini. Più libertà, più eguaglianza, più eguaglianza, più libertà. Solo così la giustizia cesserà di essere un astratto ideale da una parte o, al contrario, una pura conformità alla volontà della maggioranza cristallizzatasi in un atto legislativo. Le Costituzioni rigide cariche di valori presentano un’alternativa proiettata nel futuro alla dicotomia legale-illegale, riportando al centro della scena l’antica dicotomia giusto-ingiusto non più legata tuttavia alla sua matrice giusnaturalistica, ma saldamente insediata nel campo del diritto positivo. La politica perde il suo primato – difeso alla Costituente dal liberalismo di Orlando e dal giacobinismo di Togliatti – con l’eliminazione del suo lato oscuro: la dittatura della maggioranza. Questo era stato già il pericolo paventato dai Foundig Fathers americani quando avevano costruito il loro sistema di pesi e contrappesi, mirato a non consentire a nessun partito, fazione o schieramento di acquistare troppo potere. Come è noto, chiave di volta di questo meccanismo erano lo sfasamento temporale del rinnovo delle cariche istituzionali politiche e il controllo di legittimità costituzionale attribuito alla Corte Suprema, in stretta connessione con i giudici comuni, sin dal 1803. Il sistema americano impiegò più di un secolo e mezzo per attraversare l’Atlantico e i primi Paesi europei ad adottarlo aspettarono che il cammino del tradizionale dominio della politica arrivasse all’orrore assoluto di Auschwitz, per accorgersi che era indispensabile un completo rovesciamento di prospettiva. Perché la grande novità non rimanesse lettera morta, era necessario che la magistratura acquistasse garanzie effettive di indipendenza, in modo da poter svolgere in modo efficace la propria funzione al servizio della sovranità popolare. Dai primi anni 50 in poi abbiamo assistito ad un progressivo, ma ininterrotto cambiamento di metodi e indirizzi della magistratura italiana. Da strumento del potere politico ed economico dominante a custode imparziale dei princìpi costituzionali in generale e, in alcune realtà particolari, intransigente difensore della legalità. Non bisogna dimenticare infatti che la difesa anche della pura legalità nei territori dove la politica è fortemente inquinata dalla criminalità organizzata come lo è stata per decenni in Sicilia, in Calabria e in altre Regioni meridionali – e dove lo è ancor oggi – implica che i giudici (e le forze dell’ordine) abbiano interiorizzato e assimilato un senso di fedeltà alla Costituzione che prevale sulla fedeltà all’autorità politica ed agli uomini temporaneamente in carica. La legalità si è così identificata con la giustizia ed ha portato un numero crescente di uomini – magistrati e poliziotti – a sacrificare finanche la propria vita per spezzare l’oppressione del crimine organizzato, ignorando appelli alla prudenza e alla cautela rivolti loro da tanti “benpensanti”, pur autorevoli, legati agli intrecci di potere del passato. Anche quei politici, come Pier Santi Mattarella, che caddero sotto il piombo della mafia e di altri poteri oscuri, persero la loro vita perché anteposero la fedeltà alla Costituzione e ai suoi valori di giustizia a quella verso il proprio stesso partito, aprendo una contraddizione che fu riassorbita con la violenza delle armi. La crisi del principio di gerarchia portò con sé il rifiuto di porre al vertice di una piramide un singolo valore e costrinse la Corte costituzionale – in uno con i giudici comuni – ad una faticosa opera di bilanciamento che inevitabilmente mise in rilievo la sua attitudine “creativa”, che non significò emanazione di norme ex nihilo, ma equilibrata considerazione dei diversi princìpi costituzionali, secondo un criterio empirico di ragionevolezza, senza aspirare a dettare rigidi canoni di razionalità. Ciò ha fatto nascere incertezze e dissensi, piccoli mali che accompagnano sempre i grandi beni della libertà e della democrazia. I tempi dei grandi capi che non sbagliano mai per fortuna sono finiti per sempre. La Costituzione italiana del 1948 introdusse una grande novità, sconosciuta anche alle più antiche democrazie liberali: un organo collegiale di garanzie (impropriamente detto di “autogoverno”) eletto in maggioranza dagli stessi magistrati, il Consiglio superiore della magistratura, imitato negli anni successivi da molte altre Costituzioni. Ben presto fecero la loro comparsa le “correnti” della magistratura, raggruppamenti di giudici legati da comunanza di idealità, tutte legate all’attuazione della Carta costituzionale. Purtroppo la crisi delle ideologie e dei partiti ha portato come ulteriore negativa conseguenza la crisi delle idealità, che ha travolto anche le correnti della magistratura associata. Nel vuoto venutosi a creare hanno trovato comodo albergo gruppi di potere basati sul clientelismo e su maggioranze opportunistiche all’interno del Consiglio. Ciò ha fatto scoppiare gravi scandali, che hanno ridato fiato alle trombe dei nemici del controllo di legalità, pronti a gettar via l’acqua sporca con tutto il bambino ed a mettere in questione le stesse garanzie di indipendenza dell’ordine giudiziario. In occasione della ricorrenza del trentennale della grande inchiesta giudiziaria tramandata con i titolo di “Mani Pulite” (partita a Milano, ma poi replicata in tante altre sedi, anche del Sud Italia) si è scatenata un’opera denigratoria, che facendo leva su reali eccessi ed errori, ha coinvolto interamente una serie di procedimenti che trovavano la loro principale ragion d’essere in una corruzione diffusa da fare spavento e solo secondariamente nella smania di protagonismo e di potere di qualche magistrato. Certamente “Mani Pulite” non ci sarebbe stata, se non fossero esistite le garanzie costituzionali di indipendenza della magistratura, giacché i giudici milanesi autori delle prime indagini sarebbero stati prontamente trasferiti dove non avrebbero potuto “nuocere”. La giustizia nella democrazia presenta molti difetti e vistose insufficienze, ma, per parafrasare Winston Churchill, non esiste sistema migliore.