Lunedì 23 Dicembre 2024

Infrastrutture in Sicilia: ma quanto costa essere... isola

Messina-Palermo. I lavori sui cavalcavia della A20 per mettere in sicurezza il collegamento autostradale. E a Messina resta il nodo del viadotto Ritiro, i cui interventi di ristrutturazione stanno andando avanti ormai da parecchi anni

Ci sono due temi prioritari, nell’immaginare il futuro della Sicilia e di tutto il Mezzogiorno, due temi indissolubilmente ormai legati tra loro: l’emergenza demografica e la questione infrastrutturale. Mai come in quest’ultima fase storico-geografica appare evidente che si tratta di due capitoli decisivi dello stesso libro, due facce della stessa medaglia. In dieci anni, secondo i dati Istat, l’Isola ha visto diminuire la propria popolazione di oltre 300 mila residenti, come se fossero “spariti” più di 31 mila siciliani ogni anno. E, sulla base dei dati Eurostat, oltre che sulle indicazioni di “Landsgeist”, il sito specializzato che studia le variazioni demografiche, Messina è la città con il più alto decremento della popolazione in tutta Europa. Nell’arco di sei anni, dal 2015 al 2021, si è registrato un calo di quasi il 5 per cento dei residenti. Sempre l’Istat, di recente, ha scattato una fotografia agghiacciante: fra 44 anni, cioè nel 2066, se continuasse questo trend, in Sicilia ci resterebbe una popolazione di 3.408.228 residenti, rispetto agli oltre 5 milioni attuali. Un’ecatombe. E non è solo conseguenza del saldo negativo tra nascite e morti. È l’effetto di uno stillicidio, di una fuga di cervelli e manodopera, di flussi di emigrazione inarrestabili, che solo le nuove migrazioni (altro tema che s’inserisce in questo scenario) potrebbero, ma solo in piccola parte, colmare. Ed ecco il nodo cruciale delle infrastrutture. Si è capito ormai da decenni che non si può vivere solo di mare sole cuore amore... Una regione come la Sicilia, da tutti definita come la naturale piattaforma logistica e strategica dell’intero Mediterraneo, come l’elemento di ricucitura essenziale tra Nord e Sud Europa, come Sud che può trainare la vecchia sbuffante locomotiva italiana e come Nord di tutti gli altri Sud del mondo (si pensi all’Africa e all’Asia), si scopre, in proporzione, la meno collegata, la più isolata, condannata inevitabilmente all’emarginazione, alla desertificazione produttiva e allo spopolamento. Questa è la terra d’Europa che, come confermano i numeri dello studio commissionato nel 2021 dalla Regione Siciliana, paga più di tutti i costi dell’insularità, quantificati addirittura in circa 6 miliardi di euro l’anno. Costi e condizione di insularità che è stata, di recente, riconosciuta da Governo e Parlamento. Si parla di infrastrutture materiali e immateriali, di strade, autostrade, ponti, acquedotti, ferrovie, porti e aeroporti ma anche di innovazione tecnologica e di rivoluzione digitale. E, purtroppo, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, occasione indubbiamente preziosa per rafforzare la dotazione infrastrutturale del Meridione, è già un mezzo fallimento, se non un’enorme opportunità gettata al vento. Non c’è bisogno di aspettare il 2026 per prevedere quello che si sa già e cioè che sono state violate in partenza le linee guida indicate dalla Commissione europea sulle quali si sarebbe dovuto fondare il “Recovery Plan”, uno strumento che si giustifica, con tutto il carico di miliardi destinati all’Italia, solo come elemento riequilibratore dell’inaccettabile divario ancora esistente tra le due parti in cui è diviso il nostro Paese. L’obiettivo prioritario del Pnrr, prima ancora della transizione ecologica e di tutti gli altri proclami e buone intenzioni messe lì a lastricare le vie dell’inferno, è la coesione territoriale. E se l’Italia è un caso unico in Europa di nazione disequilibrata, è evidente che l’Europa ha chiesto di colmare questo “gap” ed è per questo che, proprio sulla base di quelle linee guida, il Sud avrebbe dovuto avere non poco più del 40 per cento, ma addirittura il 70 per cento di tutto il plafond messo a disposizione con il Recovery Fund. Il Pnrr è nato con un vizio di fondo e oggi è difficile che lo si possa riconvertire nella panacea di tutti i mali. I miliardi annunciati, e che arriveranno nell’Isola, servono a finanziare opere che sono nei programmi dello Stato e della Regione già da parecchi decenni: il potenziamento delle linee ferroviarie, la cosiddettà Alta capacità, il raddoppio Messina-Catania, e poi tanti interventi diffusi, sbandierati come l’esempio di una radicale trasformazione delle infrastrutture in direzione “green”, le navi ibride che attraverseranno lo Stretto, l’elettrificazione delle banchine portuali. Ma tutto questo non può bastare ad annullare il divario, a eliminare alla radice i costi dell’insularità e a trasformarli in benefici. Ed è emblematica la vicenda di quella che è stata spacciata per Alta velocità-Alta capacità sull’asse Messina-Catania-Palermo, in riferimento all’investimento di quasi un miliardo e mezzo di euro per il potenziamento della linea ferroviaria. Quando i lavori saranno terminati, ci sarà un indubbio miglioramento nei collegamenti tra alcune zone dell’Isola ma non potrà mai esserci la vera Alta velocità, quella dei treni che sfrecciano da Napoli e da Roma in su, sia perché non lo consente il tracciato sia perché, a monte, non è stata eliminata la cesura, costituita dal braccio di mare che separa la Calabria e la Sicilia. Senza un collegamento stabile – lo hanno dovuto riconoscere perfino i tecnici del Gruppo di lavoro sullo Stretto nominato dall’ex ministra dei Trasporti Paola De Micheli nel 2020 –, l’Alta velocità è solo un bluff. Il Pnrr, in Sicilia, relativamente alla questione infrastrutturale legata alla necessità di colmare il divario territoriale e ridurre i costi dell’insularità, stanzia, di nuovi fondi, poco più di 300 milioni di euro. Tutto il resto è un accumularsi di risorse che surrogano finanziamenti già previsti, e che non sono stati utilizzati nel passato. Ci saranno interventi, alcuni anche sicuramente attesi da tanto e destinati a incidere positivamente su alcuni segmenti dell’economia siciliana, sul sistema portuale e aeroportuale, su strade e autostrade (e su questo il Governo nazionale ha assunto impegni precisi) e, nel frattempo, dovrebbero diventare finalmente operative le Zes, le Zone economiche speciali, considerate un volano essenziale di sviluppo, in grado di richiamare nuovi investimenti imprenditoriali, grazie alle agevolazioni fiscali. Ma complessivamente è come se la Sicilia, anziché essere la nave ammiraglia del rilancio del Sud, fosse una sorta di Titanic, rimesso in sesto dopo il tremendo urto con l’iceberg, e che si tenta di rendere nuovamente navigabile con qualche toppa messa qua e là a ricoprire gli enormi squarci. E per di più il presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci, va già lanciando messaggi e richieste di aiuto, perché la scadenze del Pnrr slittino al 2030, vista la mancanza di tecnici in grado di aiutare le amministrazioni a completare le procedure progettuali nei tempi richiesti dall’Europa. Ma, al di là del Piano di ripresa e resilienza, l’auspicio è che davvero si comprenda quanto sia vitale l’importanza di collegare le due emergenze, demografica e infrastrutturale, per non lasciare che la Sicilia si trasformi in una landa desolata, abbandonata al suo destino, per incapacità delle proprie classi dirigenti ma anche per le mancate scelte, per troppe le ambiguità e le contraddizioni della politica nazionale e della stessa classe dirigente dell’Isola.

Tra Calabria e Sicilia sì Ponte, no Ponte

Il collegamento stabile tra Sicilia e Calabria non è più un “optional”. O, almeno, non dovrebbe più esserlo. La commissione di esperti, nominata dal Governo nel 2020 con l’incarico di dare soluzioni al problema dell’attraversamento dello Stretto, ha definito essenziale, per l’intero Paese, “unire” le due regioni separate dal nostro braccio di mare. E, dunque, quella è la strada indicata. Quale che sia il “modo”. Ebbene, anziché ripartire da tutto quello che era stato fatto nel corso dei decenni, da tutti gli studi di fattibilità, dal progetto definitivo che aveva avuto tutte le autorizzazioni e che, sul piano della progettazione ingegneristica, era stato firmato, tra gli altri, dalla società danese Cowi – la stessa che ha progettato il nuovo Ponte sui Dardanelli, in Turchia, inaugurato lo scorso 18 marzo, diventato il ponte più lungo al mondo, utilizzando la tipologia d’impalcato che era stata ideata proprio per il Ponte sullo Stretto –, si è deciso di affidare un nuovo studio di fattibilità a Rfi. Altri 50 milioni stanziati per studiare, ancora una volta, le varie soluzioni in campo (Ponte a campata unica o a più campate), senza tralasciare la possibilità dell’opzione zero, cioè non proseguire con la progettazione del manufatto stabile e puntare sull’attraversamento dinamico, cioè sul potenziamento delle navi. Altro tempo e altre risorse: si vedrà..

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