Lunedì 23 Dicembre 2024

Giornalismo, un grande futuro... alle spalle

Il giornalismo ha il suo futuro alle spalle. Parafrasando Hannah Arendt, immaginiamo che l’informazione di domani non possa avere alcuna prospettiva se non ripartendo dalle sue fondamenta, da un percorso storico lungo secoli, dai “canards” francesi del Quattrocento all’esplosione digitale di questi anni. Come già ebbi occasione di scrivere su queste pagine nel 1998, all’alba della nuova era digitale, «non si potrà mai prescindere dal “mestiere” del giornalista», da quella competenza “artigianale” acquisita sia nello scrivere e impaginare su carta, sia nel trasmettere contenuti sul web. Una capacità maturata sul campo, che non perde autenticità nel suo significato profondo di fronte alle tecnologie più moderne e sofisticate, dalla realtà virtuale all'intelligenza artificiale, dai big data agli algoritmi, all’Internet delle cose (IOT). Proprio grazie a quel patrimonio di competenze, che la Ses non ha mai smesso di aggiornare e consolidare anche nell’ultimo decennio, nel festeggiare i 70 anni della Gazzetta del Sud è possibile guardare con fiducia, una pragmatica fiducia, agli scenari che si spalancano per chi vive e opera con passione nel mondo dell’informazione. Certamente non bisogna sottovalutare le preoccupazioni di chi, come l’Unesco, ritiene che i social network rappresentino «una minaccia esistenziale» per i «media professionali». Google e Facebook, infatti, da soli «raccolgono ormai circa la metà della spesa pubblicitaria digitale globale». Ma la sfida da affrontare non sarà banalmente una lotta per la sopravvivenza di una categoria lavorativa. In ballo, con il tramonto della funzione di controllo indipendente del potere da parte della stampa, c’è la tenuta della nostra democrazia. Un rischio aggravato dalla costante violazione della riservatezza dei cittadini, attraverso sofisticatissimi strumenti di controllo. Si pensi al caso Cambridge Analytica, lo scandalo che nel 2018 travolse la società di consulenza britannica che aveva raccolto i dati personali di 87 milioni di utenti Facebook senza il loro consenso e poi li utilizzò per scopi di propaganda politica.

I “robot redattori”

In un’epoca in cui appare indistinto il confine tra realtà e fantascienza, prende piede il “giornalismo automatizzato”, ovvero la produzione di articoli attraverso software di Intelligenza Artificiale (AI). Servizi di testo e audio (grazie alla voce digitalizzata) riescono ormai a “ingannare” a tal punto gli utenti da sembrare prodotti elaborati da esseri umani. Finora, gli editori hanno impiegato gli algoritmi soprattutto per resoconti basati su statistiche e cifre numeriche, e per argomenti che si addicono a questo approccio tecnologico: dallo sport al meteo, dai dati sui terremoti ai rapporti finanziari. C’è chi vede nel potere degli algoritmi una svolta inquietante, prevedendo che le testate, avendo l’occasione di limitare i costi, potranno anche ridurre il personale. Ma è un’equazione che, nell’industria globale, si sta rivelando non sempre fondata. Infatti, secondo una recente analisi dell’International Federation of Robotics, nei Paesi in cui vengono maggiormente sfruttati gli automi, il lavoro “umano” non diminuisce. Anzi aumenta. Perché, allora, non ravvisare in questa rivoluzione nuove opportunità, un’incoraggiante indicazione per i giornalisti su ciò che rimarrà una loro prerogativa esclusiva a “discapito” dei computer: in primo luogo l’interpretazione dei fatti, ma anche lo stile, quell’impronta personale e distintiva di ogni autore. Potrà essere l’occasione, ci auguriamo, per mettere da parte articoli tecnici e di routine e dedicare maggior tempo a un lavoro più impegnativo (o “intellettuale” se preferite), come la cronaca investigativa o l'analisi approfondita degli eventi.

Dal far west alle nuove regole

Nel far west telematico l’autorevolezza dei media è offuscata da una babilonia normativa e dalla tempesta di notizie false o tendenziose. Nessuno sano di mente si sottoporrebbe a un intervento chirurgico eseguito da un dilettante: per analogo principio dovrà essere chiaro il rischio di una deriva sociale se venisse a mancare la funzione essenziale dei giornalisti. E per ovviare a tale pericolo sarà d’obbligo istituzionalizzare una qualifica “specialistica” acquisita con esami meticolosi, e un aggiornamento costante certificato periodicamente da organismi accreditati. Ma, soprattutto, scongiurare la minaccia che sul web e sui social appaia come prodotto di professionisti ciò che non lo è. Certo, sarà difficile non spezzare il filo sottile sul quale sono sospese l’indipendenza dei media e la garanzia della libertà di espressione. Ma, consapevoli delle difficoltà, si dovrà ugualmente provare a dare forma giuridica a un “marchio di garanzia” delle notizie (qualcosa di simile a quel “bollino blu” che si vagheggia e sperimenta da tempo) ben visibile anche graficamente in ogni articolo o video. Un modo per arrivare a una netta ed evidente distinzione tra il “rumore” dei social e l’informazione, senza però nuocere al pluralismo e censurare i media alternativi.

La lotta alle fake news

Oggi più che mai l’inderogabile libertà di espressione deve fare rima con il dovere di “raccontare” gli eventi in modo professionale. È inquietante presumere che uno stato straniero sia capace di condizionare risultati elettorali o referendum di un paese democratico (dalle ombre che hanno segnato il successo di Trump alle urne, fino al referendum sulla Brexit) o che un esercito di “troll” possa screditare la campagna vaccinale anti-Covid attraverso la divulgazione sistematica di “bufale”. Nelle ultime settimane, durante la guerra in Ucraina, abbiamo visto concretamente quali “armi virtuali” siano impiegate per condizionare l’esito di un conflitto: la cosiddetta guerra ibrida che associa ai missili la diffusione di malware in rete e notizie infondate sulle operazioni belliche. Su questo fronte, grazie anche all’efficacia degli strumenti di fact-checking, qualcosa comincia a muoversi. Diversi progetti internazionali, che coinvolgono anche Facebook e Google, puntano sulla collaborazione delle testate giornalistiche per assicurare la veridicità delle news pubblicate sulle piattaforme social. E anche nel nostro Paese sono state avviate importanti iniziative come l’Italian Digital Media Observatory, un hub nazionale finanziato con 1,4 milioni di euro dall’Ue.

La violazione del diritto d’autore

Un nodo essenziale per garantire un avvenire ai media sul piano economico è la tutela del copyright. Nell’era in cui è compiuto il passaggio dall’atomo al bit annunciato quasi trent’anni fa da Nicholas Negroponte, sembrerebbe un’impresa impossibile contrastare la pirateria elettronica fuorilegge, a causa dell’estrema facilità di riproduzione digitale. Al tempo stesso, però, come dimostrato nell’ambito dei contenuti audio, video e fotografici, grazie alla peculiarità del codice binario è facile rintracciare in tempo reale le parti “plagiate” di qualunque “file” (anche dei testi). Così quella che appariva una “falla tecnica” diventa un punto di forza, consentendo il controllo da parte degli autori sulla rete, e favorendo il contrasto delle violazioni. Da questa consapevolezza nasce la direttiva UE 790 del 17 aprile 2019, sul copyright e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. Una serie “stringente” di normative che ancora però stentano ad essere applicate anche in Italia.

L’interazione con gli utenti

In conclusione, guardare alla storia e alla “tradizione” dell'editoria non significa cullarsi sugli allori per ancorarsi alle consuetudini e alla ripetitività. Tutt’altro. Internet è un mezzo interattivo e il “pubblico” si aspetta di partecipare alla “narrazione” più che consumare notizie: non si può più immaginare un monologo unidirezionale verso i “lettori”. Non intendiamo, però, decantare l’uso indiscriminato dei contenuti generati dagli utenti, o il cosiddetto citizen journalism (ovvero il giornalismo partecipativo o collaborativo), risorsa utilizzata spesso in modo inadeguato in nome dell’ “immediatezza”. Al contrario, i “media” dovranno matabolizzare l’esperienza vincente dei “social”, per immergersi in ogni ambito del “sociale”. Come avviene con il progetto Education Lab del Seattle Times (per citare solo un piccolo ma significativo esempio) che punta ad affrontare in modo collettivo le sfide che attanagliano l'istruzione pubblica americana, le testate giornalistiche devono uscire dalla loro “torre d’avorio” e, per riconquistare la fiducia dei lettori, puntare sulle relazioni con il pubblico, coinvolgere le comunità, ascoltare le persone per riconoscere e comprendere i disagi diffusi. La redazione non dovrà più essere un “osservatorio panoramico” ma un’“unità di crisi”.

Verso un nuovo modello di business

Per chi prova a immaginare quale futuro sia riservato ai giornali, sia di carta sia online, il rebus più complesso da risolvere è sempre lo stesso: ci sarà un nuovo modello di business vincente? La pubblicità, in particolare, sembra in grado di garantire un futuro roseo all’industria dell’informazione. Ma come? Immaginiamo che i media seguano la stessa virtuosa parabola dell’industria musicale, travolta dal crollo dei profitti alla fine degli anni Novanta, a causa delle piattaforme pirata di “file sharing” (dall’antesignana Napster in poi). Dopo qualche anno, grazie alla presa di coscienza e al contrasto giuridico meticoloso, si è arrivati alle contromisure che, pur non restituendo i fasti del passato, assicurano rinnovata prosperità al “mercato sonoro”. I dati di Deloitte/IFPI mostrano che in Italia nel 2021 i ricavi dagli abbonamenti alle piattaforme streaming trascinano il settore: il segmento audio-video è cresciuto del 24,6% arrivando a 208 milioni di euro di ricavi. Ecco, così come Spotify, servizio musicale che offre lo streaming on demand condividendo gli utili con case discografiche ed etichette indipendenti, crediamo che lo stesso meccanismo virtuoso possa rilanciare gli editori dell’informazione al termine della battaglia legale sui diritti d’autore che da anni si sta combattendo contro i principali aggregatori digitali di news e i social network (in particolare Google e Facebook, colossi del web che da soli raccolgono la metà di tutta la spesa pubblicitaria globale). Questa “cornucopia” digitale, se fondata su un’adeguata regolamentazione normativa, non sarà solo capace di rivitalizzare la filiera dell’informazione attraverso un’equa distribuzione dei proventi, ma di tutelare anche quella stampa libera che è linfa vitale della democrazia.

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