Correva l'anno 1908 e per la prima volta a Firenze, nel corso del decimo congresso del Partito socialista, si evocava un tema sociale, politico ed economico che ancora oggi rimbalza sfinito con le sue rughe secolari in un approccio rivendicativo. Una postura caricaturale e ingannevole delle ragioni che già allora escludevano risarcimenti e compensazioni per lenire profonde diseguaglianze geografiche. Perché Gaetano Salvemini, di fronte a una platea riottosa e insofferente, non pensava di coniare la “Questione Meridionale” per farne alibi e feticcio della mercificazione politica, ma ambiva a un equilibrio di diritti irrinunciabili, in questo caso parlava del suffragio universale reale: «È questo il solo aiuto che noi vi chiediamo. Non ve ne chiediamo altri. Finora, nei nostri congressi, abbiamo assistito spesso a spettacoli che a me, meridionale, hanno fatto umiliazione e dolore. Sono stati continui e noiosi i lamenti dei meridionali perché i socialisti del Settentrione non si occupavano di loro. Io spero che i meridionali non ripeteranno più queste lamentele! Quando i socialisti del Settentrione cominciarono a costituire il Partito socialista, non andarono a chiedere l’aiuto dei tedeschi o dei giapponesi; fecero da sé. Anche noi dobbiamo fare da noi!». E alle obiezioni ruvide dei compagni ribatteva: «Mentre nel Nord, in una città di 20.000 abitanti avete 2.000 elettori, nel Sud ne avremo al massimo 800, e mentre nel Nord voi vedete deputati eletti con 4 o 5.000 voti, del Sud ne vedrete di quelli eletti con 800 voti». Subito interrotto da una voce della platea: «Insegnate loro a scrivere». Che cos’è oggi la Questione Meridionale, maschera per decenni di fallimenti e colossali speculazioni? E si può ancora omologare realtà che stanno imparando a «scrivere», come Puglia e Basilicata, alle regioni (Sicilia e Calabria) che faticano a tenere la penna in mano? Eppure mai come in questi anni i diritti per accorciare le distanze hanno generato opportunità che potevano plasmare visioni di futuro, già oggi strutturate in un incoraggiante presente. Da qui bisogna ripartire per riscrivere il tema delle più lontane periferie dell'Italia, in un percorso di rigenerazione che sappia seminare fattori di crescita lungimirante. Sicilia e Calabria possono creare le condizioni per arginare i processi che rischiano di inaridire le prospettive, minate dall’involuzione demografica, dallo spopolamento, dalla dispersione scolastica e dal progressivo distacco delle nuove generazioni, orientate a varcare i confini in un rapporto più aperto e fluido con la mobilità, acquisita come opportunità per realizzare un progetto di vita al di là dell'Isola o dei monti calabri. Invertire la rotta significa investire soprattutto nella cultura. E cioè seminare nei campi della formazione (dall'asilo all'università), pianificando una strategia di sistema che garantisca un itinerario di crescita sociale, in cui il sapere si fonde con il valore della cittadinanza. Ma ridurre le diseguaglianze significa anche adeguare modelli d'istruzione e percorsi di studio alle sfide moderne, riequilibrando le condizioni tecnologiche, leve dell'innovazione. Se il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) avrà un futuro, il bivio ineludibile è quel “capitale umano” che rappresenta la cellula destinata a rigenerare il tessuto sociale. Se la dote dei miliardi che sarà riversata su Sicilia e Calabria servirà solo a dopare il Pil, la crescita avrà il fiato corto. Una bolla effimera. La cura ricostituente, invece, avrà un orizzonte se le due regioni useranno la leva finanziaria per delineare una visione di sviluppo, come suggerisce il rapporto 2021 della Svimez: «L’elemento che potrebbe fornire ulteriore spinta all’economia meridionale rimanda alla capacità di trasformare questo notevole incremento di investimenti pubblici in nuova capacità produttiva, in grado di intercettare una quota maggiore di domanda, interna ed estera. L’offerta meridionale, infatti, specie durante e dopo la “lunga crisi”, si è notevolmente depauperata, e quindi l’economia del Sud è capace di trasformare in produzione realizzata in loco solo una quota modesta della domanda ad essa rivolta. È nell’aumento strutturale di questa parte che risiedono le possibilità di recupero dell’economia e della società meridionale». Se anche Giacomo Leopardi faceva filtrare un raggio di sole nel pessimismo più cupo («Sono convinto che anche nell'ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino»), allora è il momento, unico e irripetibile, per scrivere il futuro di Sicilia e Calabria sui fogli bianchi della storia. Gli alibi farlocchi della Questione Meridionale non reggono più: «Le risorse dal Pnrr ormai ci sono – ripete la ministra per il Sud, Mara Carfagna – si tratta di 82 miliardi di euro per il Sud che vanno spesi nell'arco temporale di 5 anni. Saranno risorse determinanti se governo, regioni, enti locali e imprese sapranno cogliere al meglio questa straordinaria opportunità». Come osserva il direttore della Svimez, Luca Bianchi, «l'economia meridionale potrebbe avere una spinta decisiva se si spenderanno interamente i fondi destinati al Mezzogiorno»: «Il Sud può partecipare al nuovo percorso di rinascita e ripresa del paese se verrà investito da una trasformazione. Il nuovo sentiero è un piano di investimenti che tenga insieme politica di sviluppo e politica di coesione. Per questo motivo l'impostazione del Pnrr può essere un elemento decisivo. La sfida sarà l’attuazione». Ed è questa la vera Questione Meridionale, circoscritta alle regioni che nel tempo non hanno saputo progettare modelli di sviluppo, disperdendo risorse e privilegiando una gestione politica dei fondi europei, con interventi spesso estemporanei e clientelari che hanno tradito la missione affidata agli investimenti. Il rischio per Sicilia e Calabria è la tentazione sciagurata di usare le risorse secondo schemi frammentati da interessi localistici, fuori da una visione più ampia di comunità: «Gli uomini in certi momenti sono padroni del loro destino – scriveva Shakespeare in Giulio Cesare – la colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle, ma nei nostri vizi». Il Pnrr non sarà la catarsi dei peccati, ma può consentire alle due regioni di arginare processi di erosione economica che aumenterebbero il divario con la locomotiva dell'Italia. La pandemia ha allargato la forbice Nord-Sud e un'accentuata polarizzazione potrebbe allontanare quella ripresa che appare come l'ultima opportunità per incollare il Tacco allo Stivale. La missione istituzionale è teoricamente orientata verso questa consapevolezza, perché come osserva il presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, «non riusciremo a rialzare la testa con nduja e cipolla, ma dobbiamo attrarre investimenti». E allora compito della politica è dare un senso compiuto alle condizioni strutturali indispensabili per accogliere progetti di ampio respiro, come quelli che, per esempio, da mezzo secolo aleggiano sul porto di Gioia Tauro, miniera che lascia sul territorio calabrese una quota marginale di ricchezza. Ma le due regioni a sud del Mezzogiorno hanno bisogno di più tempo per armonizzare i contenuti progettuali in una visione di futuro. «Se non si sposta la data di scadenza del Pnrr di almeno due anni, ma io spero almeno 4, – auspica il governatore siciliano, Nello Musumeci – non riusciremo a utilizzare appieno i fondi». Il Pnrr è una corsa per velocisti che hanno fiato e gambe per saltare gli ostacoli, non per i tanti Comuni siciliani e calabresi costretti a fare i conti della serva per dotarsi di un segretario generale o di un ingegnere. Il rischio è rinunciare alla logica del disegno strategico per affannarsi a rincorrere il flusso di risorse economiche in transito. Le due regioni hanno bisogno di valorizzare i fondi per curare profili stratificati di vulnerabilità: più del 37% dei giovani non lavora, non studia e non segue corsi di formazione, con una incidenza superiore alla media nazionale (23,3%). E non basteranno tutte le risorse del Pnrr se non si tampona una falla che svuota prospettive di vita, disperdendo il nutrimento generazionale del “capitale umano”. Ma c’è un altro orizzonte che si osservava distrattamente con il binocolo della geopolitica e che oggi si sta materializzando alle frontiere meridionali dell’Italia. Nei mesi scorsi lo Stretto di Sicilia, 90 miglia di mare che saldano i due oceani, rotta di interessi commerciali ed energetici, è stato teatro della “guerra del pesce”. Le milizie libiche sono state protagoniste di un'escalation intimidatoria culminata con il sequestro di due pescherecci siciliani. Non è stato uno sporadico rigurgito di tensione, ma un segnale da leggere in filigrana per cogliere l’evoluzione delle influenze che si sono stabilizzate nel nuovo ordine del Mediterraneo. Se Sicilia e Calabria ambiscono a recitare un ruolo nel Mare Nostrum, unico corridoio per allargare le potenzialità economiche, bisogna ricalibrare i rapporti alla luce dei nuovi equilibri di potere che si sono radicati sulla costa nordafricana (Libia, Tunisia, Algeria). Russia e Turchia si sono divise la Libia. La Cina, più discreta, si è infiltrata nell’economia algerina, dopo aver issato la sua bandiera sul Pireo. Il gendarme yankee ha traslocato, lasciando nel Mediterraneo una sentinella simbolica. I venti di guerra hanno increspato lo Stretto di Sicilia. La nuova “linea della palma”, coniata da Sciascia, non è solo una Questione Meridionale.