La fuga in avanti e la rovinosa caduta della Superlega, maldestro tentativo di putsch ordito da generali del calcio felloni e velleitari, ci consegna anche una chiave di lettura sociologica. Nella forzatura si intravede la spia di un approccio culturale, imposto dalla necessità di inseguire modelli di consumo. Una corsa frenetica senza traguardi, una distesa senza orizzonti ma solo l’esigenza di sostenere un ritmo di produzione. Non basta cambiare il pezzo usurato, la scadenza è un conto alla rovescia che pretende nuove “eccellenze” in una moderna logica cannibalizzante.
La normalità appare come misura di un tempo ritardato, incapace di stare al passo della rutilante progressione che ci spinge verso nuovi desideri, confezionati nei laboratori dello stupore. Una corrente impetuosa che sradica radici, linfa della “società liquida” immortalata da Zygmunt Bauman. Così abbiamo bisogno di apparire “super”, liberandoci delle zavorre che ci costringono a soffermarci sul significato, sulle sue implicazioni etiche e umane. A costo di svuotare i principi che dovrebbero animare modelli relazionali, come appunto lo sport.
Il naufragio grottesco e penoso della Superlega dimostra, però, che sopravvivono anticorpi in grado di mobilitarsi quando l’irruzione tenta di scardinare la riserva della percezione, dove le differenze creative convivono in una romantica conflittualità. In fin dei conti l’elitismo uniformante che ha animato il clan dei secessionisti imponeva un’inaccettabile ingiustizia, fondata su condizioni precostituite riconducibili al censo.
Nella traslazione di questa logica la percezione ha sviluppato un’inquietante carrellata di suggestioni, tutte “super” in una deriva discriminante, con l’immagine di un vaccino bionico che avrebbe soppiantato la selezione naturale, organizzando l’umanità in categorie di razze. Così in poche ore quello che appariva come un golpe destabilizzante, destinato a trapiantare supercellule nel corpo sfatto del calcio, si è rivelato il trailer di un genere “fantasy horror” respinto sulla soglia della locandina da una fragorosa pernacchia.
Non c’è stata partita. Ha vinto il campo improvvisato in una polverosa strada di quartiere, il pallone improbabile e sgonfio, il piccolo sogno di periferia che diventa impresa collettiva. Senza avere il marchio “super”.
Caricamento commenti
Commenta la notizia