Venerdì 18 Ottobre 2024

OlimPILLS, a Salt Lake City vince chi resta in piedi: “Do a Bradbury”, l'impresa sportiva del secolo

In Australia, stando ai censimenti più recenti, quasi metà della popolazione si divide tra protestanti e cattolici. La situazione è molto frastagliata, ci sono anche gli ortodossi. Ma tutti, a prescindere dalla fede, proprio tutti, non credono nei miracoli. O meglio, hanno un modo tutto loro per definire i miracoli. Quasi si sfocia nel paganesimo quando si fa riferimento a un atleta del passato per affidare le proprie preghiere. Dicono “Do a Bradbury”. C’è un concorso importante? “Do a Bradbury”; bisogna tirarsi fuori da una posizione scomoda? “Do a Bradbury”; c’è da ribaltare un pronostico schiacciante? “Do a Bradbury”. Traducendo: “Fai una Bradubury”, ovvero realizza un’impresa impensabile. Questo modo di dire è legato indissolubilmente a un nome: Steven Bradbury, appunto. Pattinatore australiano che scrisse la storia dei Giochi olimpici invernali di Salt Lake City del 2002. La storia di Bradbury la conosciamo un po’ tutti. Non foss’altro perché, negli anni, è diventato suo malgrado il bersaglio di uno dei video più virali della Gialappa’s. E in tanti negli anni hanno ironizzato sul feeling spudorato tra il pattinatore Aussie e la dea bendata per vincere una medaglia d’oro… a eliminazione diretta. Bradbury non vinse, ma in sostanza fu l’unico a non perdere. Sin dalle qualificazioni che lo condussero alla finale, ebbe la sorte come fedele compagna. La storia. Non si qualifica alla semifinale di short track ma viene “ripescato” per via della squalifica del campione del mondo in carica, il canadese Marc Gagnon. In semifinale va male, ma grazie a una serie di cadute ottiene la qualificazione alla semifinale con l’ultimo tempo utile. Ma il vero capolavoro in tandem con la Dea bendata, Bradbury lo compie nella finalissima: è ormai tagliato fuori dai giochi per la vittoria finale, lontanissimo dai primi quattro che si contendono il podio ma all’ultima curva succede l’imponderabile: due atleti scivolano e trascinano anche gli altri due sul ghiaccio. Quasi non accorgendosene, Bradbury taglia il traguardo, mentre un groviglio di atleti e pattini si mescola al ghiaccio alle sue spalle. Medaglia d’oro. “Do a Bradbury”, appunto. Di questa storia è stato messo in risalto solo e soltanto l’aspetto che stimola una risata, la componente della fortuna avvolge tutto il resto. Dietro ogni atleta c’è una storia, e spesso ce ne dimentichiamo e ci facciamo catturare solo dal medagliere, dall’appeal che questi possa avere in termini di vittorie o di follower reali o virtuali che siano. Perché Bradbury, prima di Salt Lake City, in carriera, subì di tutto: nel 1995, dopo una caduta, la lama di un pattino si conficcò in una gamba recidendo un muscolo e una vena. Ci vollero 100 punti di sutura e più di qualche preghiera per rivederlo in piedi senza conseguenze. Nel 2000, invece, si ruppe due vertebre del collo e secondo molti poteva suonare come il canto del cigno della sua carriera. Mentre indossava la medaglia d’oro dopo la bizzarra finale di Salt Lake City, Bradbury dichiarò: “L’oro è arrivato un po’ così, ma me lo prendo. E no, non per i 90 secondi della gara, ma per i 14 anni di duro lavoro”. Ciò che Steven ha insegnato a tutti è che, molte volte, nella vita, serve trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Possibilmente facendosi trovare in piedi. Per tutto il resto “Do a Bradbury”.

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