Quando la cultura della “normalità” si unisce al tifo non c'è scampo: Khelif e Carini “vittime” degli stessi killer
Alla fine, come spesso avviene in Italia, la questione si è polarizzata. Dai guelfi e ghibellini in poi (forse anche da prima) è sempre stato così. Non c'è misura nel giudizio, manca l'equilibrio. O si è “pro” o “contro”. Il grigio, come sfumatura, non è contemplata. E così anche il caso Khelif-Carini, pugili algerina e italiana coinvolte nel caso mediatico per eccellenza dei Giochi Olimpici parigini, è stato avvolto dalla stessa dinamica tossica. Ci sono stati due fattori deflagranti che hanno acuito questo dualismo: la vexata quaestio della normalità e il tifo. Un mix che è esploso in faccia, principalmente, alle protagoniste. Angela Carini ha pagato con l'eliminazione dall'Olimpiade - appuntamento atteso da quattro anni, che per lei è durato qualche secondo appena - sicuramente condizionata dalla polemica pre-gara, alimentata colpevolmente anche dalle Istituzioni sportive e politiche del nostro Paese. Si è ritirata più per il dolore dell'anima che per quello fisico. Non se l'è sentita di dirlo a fine match, ma la sensazione è proprio quella di una resa morale prima che del corpo. E la pugile algerina? Andrà a medaglia, sicuramente: mal che vada sarà bronzo. Ma probabilmente non esporrà nessun metallo in bacheca, perché anche solo ammirarlo di sfuggita andrebbe a scoperchiare questo ricordo amarissimo, che nella giornata di ieri l'ha ridotta in lacrime e ha portato il padre di Imane a mostrare il certificato di nascita: «Parliamo di una donna, ve lo assicuro!». Perché la sua medaglia di Parigi riporterà sempre alla memoria questa assurda vicenda. E richiamerà drammaticamente a quella parola così stridente e anacronistica nell'epoca in cui viviamo: “normalità”. Che unita al tifo da stadio ha moralmente ucciso due ragazze. Due pugili. Due persone.