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"La sposa", l'unione e la forza fanno la differenza ben oltre le polemiche

Serena Rossi

La miseria del denaro e la ricchezza della dignità. Potremmo continuare all’infinito con tutti gli opposti argomenti che compongono la trama de “La sposa”, su Raiuno, la domenica in prima serata, e che si sono portati appresso una serie di polemiche con la eterna contrapposizione Nord-Sud. Non ci sembra questo tuttavia, il giusto metro per valutare la fiction di Giacomo Campiotti, ambientata negli anni Sessanta fra Calabria e Veneto ma, che, paradossalmente, è stata girata fra la Puglia e il Piemonte e il cui successo negli ascolti è stato replicato anche due giorni fa con oltre sei milioni e mezzo di telespettatori.

Sarebbe bastato, infatti, aspettare la seconda puntata per comprendere che la trama de “La sposa”, dopo un avvio caratterizzato dalla antitesi fra l’ignoranza del ricco agricoltore veneto che “compra” una moglie per il nipote vedovo e l’intelligenza della sposa calabrese, sacrificata in un matrimonio combinato che assicura alla famiglia il necessario sostentamento, si addolcisce in una storia nella quale è l’unione e la forza a fare la differenza. Si sono lamentati sia i veneti che i calabresi, per motivi diversi ma, soprattutto, per gli stereotipi sui quali la fiction fa leva, ma era necessario venir fuori dai regionalismi per comprendere come “La sposa” mira a ritrarre sentimenti e non luoghi, svolge temi universali e non locali, e getta uno sguardo su una storia che, è al tempo stesso, antica e moderna.

Antica nella realtà e moderna nell’impostazione, lontana nel tempo ma contemporanea nella struttura. Un passo avanti, potremmo dire, nella programmazione generalista di Raiuno, ma che nella sua narrazione di forte presa sul pubblico con la descrizione di sentimenti definiti nettamente, inserisce, senza essere didascalica o invasiva, valori come l’importanza dell’istruzione, la lealtà, il senso di responsabilità, la capacità di reagire alle ingiustizie e alle discriminazioni dettate dall’ignoranza. Non meritava rilievo, a nostro avviso neanche la polemica sulla lingua, perché gli sceneggiatori hanno avuto compassione del pubblico e si sono limitati a una blanda caratterizzazione della parlata, senza ricorrere all’uso eccessivo dei dialetti veneto e calabrese, per i quali sarebbe stata necessaria la traduzione simultanea o la sottotitolazione.

Insomma un buon prodotto, quello di Campiotti che, per essere compreso senza forzature, aveva bisogno di una riflessione meno frettolosa e non dettata dai campanilismi, perché, in fondo la nostra storia sociale non è sempre dettata dalle persone ma dalle condizioni di vita, e il progresso non è condizionato dal denaro ma dall’apertura mentale e dalla sensibilità dei singoli e dalla loro capacità di sentirsi parte di una comunità.

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