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Di cosa parliamo quando parliamo di guerra? E cosa vediamo?

La guerra dell'informazione. L'ospedale di Mariupol
La guerra dell'informazione. L'ospedale di Mariupol

Come si racconta una guerra? Con quali parole, con quali immagini il telespettatore si appropria del vero significato di ciò che sta accadendo, con tanti parametri frammentati e diversi? La percezione è che la comunicazione appartenga a tutti e a nessuno, e che sulla rete si giochi un’importante partita. Da una parte si blocca internet per evitare la diffusione del dissenso interno, dall’altra si chiede di incrementarne il funzionamento per consentire il più ampio scambio di dati e informazioni possibili.

È dal proprio cellulare che Zelensky, fa capire che non ha abbandonato il posto di comando, incita il popolo alla resistenza, chiede aiuto al resto del mondo. È dai video realizzati e trasmessi dagli smartphone che i cittadini ucraini raccontano la loro guerra, perché la prospettiva soggettiva, con i rumori di spari non coperti e le riprese senza mediazioni, comunica in maniera più efficace di tanti resoconti, riprende il momento, fa percepire realmente il terrore e l’angoscia, fa vivere ciò che, tanti, nella realtà, vivono, anche se nessuna immagine e nessun commento riesce a dare la misura di cosa significhi essere al freddo e al buio dei rifugi senza cibo, acqua e medicine.

Più scenografica la visione dei Tg che trasmettono il senso della immedesimazione, attraverso un contesto generale nel quale, poi, si muovono le storie dei singoli. È lo scenario di palazzi sventrati, di donne e bambini in fuga in cerca di un altrove che li accolga, delle colonne di tank che si spostano conquistando lembi di terra, dei morti abbandonati sulle strade.

Poi c’è il racconto sui movimenti delle truppe, il controllo delle posizioni, i km che separano i carri armati dalle città nelle tattiche di accerchiamento e lì ci si rende conto che la narrazione, fatte le dovute proporzioni, è uguale nei secoli: l’assedio di Troia, Annibale con gli elefanti, il De Bello Gallico, Waterloo, le trincee del Piave, il bombardamento di Roma, Midway e il Vietnam, tanto per citarne alcuni, sono scritti dalla stessa mano di un Risiko reale e maledetto.

Le azioni a tutela, invece, vengono descritte con il lessico dell’economia, le sanzioni si studiano negli scambi bancari, le alleanze fluttuano nei mercati, i distinguo fra gli aiuti transitano dalle vicinanze geopolitiche. È una la guerra, ma a lento rilascio, della quale non si comprende subito la portata ma che verrà pagata dalle generazioni a venire di entrambe le parti. Dietro tutto ciò si muove l’enfasi della pace, con i proclami, le bandiere, le manifestazioni, quasi necessarie per tenersi al riparo da una mancanza di sensibilità, quasi superflue se fosse effettivamente la pace a dominare sempre le azioni umane.

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