Vi piace la serie “Studio Battaglia”, in onda su Raiuno? Sì? Bene, allora probabilmente non siete avvocati e meno ancora avete affrontato una causa di separazione o divorzio. Perché Studio Battaglia può sembrare una serie divertente, nella quale vengono trattati temi di stringente attualità, e ben fatta, ma, purtroppo, è basata su una serie di stereotipi che riprendono i luoghi comuni sull’avvocatura.
Il primo è quello che si concentra nell’equazione cliente = soldi da spremere. Dei discorsi fra gli avvocati della fiction è questo il succo. Il secondo è tratto da un dialogo fra due avvocati: «Tu sei una brava persona, ma le brave persone, di solito, non fanno gli avvocati», con ciò relegando la maggior parte della categoria nell’ignominia. Il terzo è che solo i ricchi si possono permettere qualcuno che li difenda, mentre vi assicuriamo che non tutti gli avvocati e persino non tutti gli avvocati di Milano hanno uno studio con vetrate che sporgono sul Duomo o su City life.
Il quarto è che la materia “famiglia e matrimoni” sia quella in cui le avvocate si applicano al meglio, visto che esistono ottime specialiste in “obbligazioni e contratti”. L’ultimo stereotipo è il più sottile e insidioso, che vuole le avvocate in tailleur pantaloni, e qui la sottigliezza sta nel fatto che Anna, la protagonista la cui personalità è più costruttiva e coscienziosamente etica, per distinguersi veste in gonna e maglioncino.
Anna, interpretata da Barbora Bobulova, infatti, è l’avvocata Battaglia che si stacca dallo studio dell’ingombrante madre Marina (Lunetta Savino) e della sorella Nina (Miriam Dalmazio), matrimonialiste d’assalto, per un altro studio legale, trovandosi così in vari casi ad avere come avversarie mamma e sorella, e ci chiediamo quanto questo aspetto, al di là della correttezza professionale dimostrata nella fiction, faccia pensare ad altro diffuso luogo comune secondo il quale «gli avvocati si mettono d’accordo».
Gli studi legali della fiction hanno una scintillante apparenza e una concezione del diritto glamour, che tuttavia non sempre risponde alle difficoltà che si incontrano nella professione. La ricchezza della trama, la fluidità del racconto, i retroscena sulle vite delle protagoniste, quindi, sono sufficienti a far trascorrere una simpatica serata televisiva, ma non bastano a compensare la descrizione stereotipata dell’avvocatura, che in versione 2.0 quasi riprende l’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria.
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