Chiariamoci subito, se fossimo stati all’Arena Suzuky a quest’ora saremmo ricoverati per l’apposizione di una protesi all’anca, e abbiamo provato invidia per gli oltre diecimila boomer, che hanno retto più di due ore di ballo, senza mollare, evidentemente impasticcati di pappa reale, dopo aver acquistato il biglietto con l’impegnativa del medico di base e lo sconto carta argento.
Ogni anno Amadeus, forte della sua esperienza di dj, decide di coinvolgere i suoi coetanei e anche qualcuno più indietro negli anni, in questa sagra del karaoke e della discoteca, che dimostra che una generazione che ormai ha la cataratta, l’artrosi e un po’ incontinenza, è ancora vitale e lotta insieme a Umberto Balsamo, del quale non ha mai dimenticato l’insuperabile endecasillabo sciolto con le trecce e i cavalli. Poi, però, arriva Sanremo e, con lo stesso entusiasmo che lo porta a celebrare la febbre del sabato sera, Amadeus ci tumula con sconosciuti e anche stonati, ma giovani. Nel confronto fra quelli pronti ad indossare il pannolone e coloro che hanno appena tolto il pannolino Amadeus non prende posizione, ma si capisce che ha una formazione vintage e che aspira a presentare The Voice senior.
Questa volta sia il pubblico che coloro che si sono esibiti praticamente avevano superato quota 100 da almeno dieci anni, consumatori e produttori di musica incisa su 33 e 45 giri in vinile non più in commercio, che rappresenta il paleolitico per la generazione Spotify.
Dopo un’estate in cui i vari spettacoli musicali televisivi ci hanno presentato misconosciuti rapper e trapper con autotune, Gloria Gaynor ci sembrava una cara parente tornata dall’America che magari ormai canta i gospel in una parrocchia della Georgia, ma almeno «I will survive», datata 1978, con tutti i guai che abbiamo passato e i problemi che ci aspettano, ci sembra ancora oggi significativa e, soprattutto performante per il ballo.
Perché, diciamocelo, negli anni 60, 70, 80 e perfino 90 ballavamo con le mani, con i piedi e anche con il c…, oggi, i millennials non ballano, ciondolano come i gatti della fortuna cinesi.
Ok, l’immagine generale della serata, a ben guardare, oscillava fra il patetico e il nostalgico, e ha avuto la sua mazzata con Maggie Reilly vestita da preside in pensione che cantava «Moonlight shadow», ma che era niente, di fronte a Paul Young, la cui immagine, che ricordavamo in formato poster spiaccicata sul muro della stanza della nostra compagna di università, dopo trenta anni, ci ricordava quella di un gentiluomo dei primi del Novecento in un dagherrotipo in bianco e nero.
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