Più gli eventi sono presenti nella nostra memoria, meno inclini siamo ad accettare le teorie proposte da altri. Se a ciò aggiungiamo la recente scomparsa di Queen Elisabeth e il fatto che per almeno dieci giorni la tv è stata presa in ostaggio dai millemila documentari sulla sua vita e uno dei regni più lunghi della storia, comprenderete la nostra mancanza di fascinazione per la V stagione di «The Crown».
Le prime edizioni della serie di Netflix ci avevano incantato per la ricostruzione di un periodo storico e soprattutto per quella trama politica che si affiancava alla vita della giovane regina, però, man mano che gli eventi si sono collocati nella contemporaneità, abbiamo perso interesse alla rielaborazione romanzata delle vicende dei reali, così come presentate da Peter Morgan. Seppure resta intatta la bravura del cast e la capacità di ricreare e proporre al telespettatore il contesto scenico dei Windsor, in questa stagione il gossip pare abbia preso il sopravvento sul rigore e il racconto prende spunto da elementi noti all’universo mondo per abbandonare la strada dell’autenticità e inoltrarsi nel «liberamente tratto».
In uno sforzo di sceneggiatura per aprire strade non battute dalla documentaristica, si è raccontato l’annus horribilis di Sua Maestà, con la metafora del decadimento dello yacht reale Britannia, e mettendo in risalto le figure dei figli e dei parenti tutti. Il limite, tuttavia, per lo spettatore, è sempre rappresentato dal ricordo recente della cronaca che ha reso la famiglia reale tale e quale alle starlet da copertina; così il racconto fra il diletto figlio Andrea e l’augusta madre sul discutibile comportamento di Sarah Ferguson appare, più che finto, risibile e del pari le dinamiche che mettono Lady D al centro di uno spionaggio di Stato sembrano amplificare ciò che già da tempo conosciamo attraverso il libro di Andrew Morton.
Non ha migliore sorte quella che, a nostro avviso, poteva essere la parte più intrigante della serie, con la puntata dedicata a Mohammed Al-Fayed. Da giovane venditore di bibite al Cairo lo ritroviamo – senza capire come abbia fatto – già ricco e competitivo nel suo desiderio di ascesa reale, attraverso gli insegnamenti di Sydney Johnson, ex valletto di Edoardo VIII, assunto per comprendere come muoversi nell’alta aristocrazia. La conclusione del rapporto fra i due è descritta con struggente sentimentalismo, per la gratitudine mostrata da Al-Fayed sul letto di morte di Johnson. Resta però non approfondito il racconto sul peso del giudizio del valletto nei confronti del suo allievo e, soprattutto, quanto sottilmente orientato sia stato il suo condizionamento sulla suggestione del magnate.
Caricamento commenti
Commenta la notizia