Motivati da ragionevole campanilismo, abbiamo ben pensato di seguire le nuove puntate di «Dinner Club» su Prime dedicate a Sicilia e Calabria. Per chi non avesse seguito la prima serie, Carlo Cracco porta a spasso per l’Italia quattro amici – Marco Giallini, Paola Cortellesi, Luca Zingaretti e Antonio Albanese per questa edizione – alla ricerca delle eccellenze gastronomiche del territorio. Ciascuno dei partecipanti dovrà poi replicare i piatti gustati durante il tour, nel corso di cene che vedono ospiti anche Sabrina Ferilli e Luciana Littizzetto.
Un programma che si snoda su diversi piani, ci sono le incursioni per trovare gli ingredienti regionali più interessanti e gustare la cucina locale, la prova della abilità culinaria degli ospiti, la parte propriamente conviviale della cena. Tutto ciò fa certamente di «Dinner Club» un programma vario, esaltato dal montaggio che sintetizza il materiale girato e lo compone per dare la migliore rilevanza possibile, reso divertente o noioso a seconda della disponibilità dell’ospite a lasciarsi coinvolgere nella avventura mangereccia.
Nonostante la qualità della serie, non abbiamo tuttavia compreso la necessità di una trasmissione simile a molte altre che definiremmo low cost, portatrici sane di tutta una narrativa oscillante fra la conoscenza dei cibi e quella dei luoghi, che quelli bravi chiamano food travelogue. «Dinner Club» è una sorta di già visto e sentito della ricerca enogastronomica locale e dei prodotti del territorio, che tuttavia può contare su un budget che permette di assoldare Cracco, ospiti di prima qualità e di girare per tutta Italia. Tutta questa costruzione, che fra l’altro spesso appare abbondantemente artefatta, non fa di «Dinner Club» una trasmissione migliore di altre dello stesso genere ma semmai dotata di maggiore appeal.
E non parliamo dei dubbi che assalgono il telespettatore, che vede Cracco tuffarsi con soddisfazione (magari soltanto televisiva) in bei piattoni conditi con direttamente con il colesterolo allo stato brado e pensa alle porzioni microscopiche e dall’impiattamento rarefatto che vengono fuori dalle cucine stellate. O di chi ben conosce l’impiego delle materie prime locali, ma non riesce a comprendere come possano essere utilizzate nell’alta cucina nell’alternanza fra la ricerca del particolare e un consapevole snobismo che si riflette sul conto. Perché, se proprio dobbiamo dirvi la verità, ok alle lumache che chiamiamo «stuppatelle», va benissimo il maiorchino, lo zafferano e lo street food, ma sinceramente non sapremmo come abbinare l’elicriso che sapevamo essere antinfiammatorio, ma non diversamente commestibile.
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