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“Il Gattopardo”? Una Bridgerton sicula, tra Masterchef e Il Gladiatore

Gli eredi di Tomasi di Lampedusa e di Visconti dovrebbero fare una class-action contro Netflix, gli sceneggiatori e i registi di «Il Gattopardo», per vilipendio di capolavori. E non è la nostalgia o il confronto fra il film e la serie a determinare il nostro giudizio, ma proprio la trasposizione dell’opera letteraria e dei suoi piani di lettura, perché tanto eravamo desiderosi di vedere un sontuoso adattamento contemporaneo del romanzo storico quanto siamo rimasti delusi da una edizione che ci è apparsa come la Bridgerton sicula, nella quale il maestoso affresco di una nobiltà che si avvicina alla decadenza è sostituito dalla riccanza e l’autorevolezza dall’arroganza.
Certo l’ambientazione è sfarzosa: giardini rigogliosi che si aprono alla fine di strade sconnesse che attraversano paesaggi da Far West, segno che in Sicilia poco è cambiato dai tempi del Risorgimento e l’acqua è appannaggio di pochi. Palazzi nobiliari di prestigio (ora probabili location per matrimoni) nei cui soffitti si ammira l’opulenza che raggiunge il culmine con la tavola della colazione gattopardesca, nella quale gli scenografi hanno abbondato in allestimenti che occhieggiamo ora a Masterchef ora a Marie Antoinette di Sofia Coppola, mentre gli sceneggiatori si sono concentrati sulla parola «granita».
Il Principe di Salina interpretato da Kim Rossi Stuart nulla ha della ieraticità d’un personaggio che fra le varie sfaccettature esprime raffinatezza, disillusione e sensualità, ma piuttosto nei modi e nell’espressione trae ispirazione da don Vito Corleone. Non parliamo poi di Tancredi – Saul Nanni – nipote amatissimo, rappresentato più come un imberbe che abbraccia la rivoluzione come ardito passatempo, che come affascinante interprete di un mondo che cambia. Ampio risalto viene dato alla figura di Concetta, amata figlia del Principe e innamorata di Tancredi, ma anche qui il particolare rilievo che hanno le figure femminili, Principessa madre e Angelica comprese, è limitato alla tensione romantica più che storica. Scordatevi, poi, le musiche di Nino Rota, perché o noi siamo sordi o ci è sembrato che riecheggiasse la colonna sonora del Gladiatore.
Ma ciò che soprattutto manca è la visione del mondo del Gattopardo, perché a nostro modesto avviso la serie trasforma la decadenza in alterigia e tutto il contesto, al di là della magnificenza, è privo di appeal e di unitarietà. Insomma, non volevamo fare paragoni, ma segnare le differenze sì, e il film di Visconti era un’opera d’arte degna della Palma d’oro, la serie di Netflix un prodotto che aspira ai Telegatti.

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