Armadi. La vita, le relazioni, i libri: qualunque cosa è un armadio, in fondo. Destinato ad accogliere gli scampoli – allegri o dismessi, malinconici o esuberanti, irrimediabilmente strappati, laceri, fuori moda, oppure pronti a una seconda vita, solo con un’aggiustata alle spalline, una sforbiciata all’orlo, un’aggiunta strategica di passamaneria – della nostra esistenza. E ci sono anni a colori e anni in bianco e nero, anni a fiorellini e anni beige (il colore che sta male a tutti, ma che serve a mimetizzarsi: sicché ci sono intere vite, tutte beige), anni di seta e chiffon e anni di lana cotta e pile. La vita è ciò che capita a un armadio – viene da pensare leggendo il bel libro della siciliana (vive ad Aci Castello) Elvira Seminara “Atlante degli abiti smessi” (Einaudi) – mentre i proprietari dei vestiti che esso contiene vanno in giro a indossare le cose che capitano loro.
Abiti. Eleonora, donna bizzarra prossima alla cinquantina scrive alla figlia Corinne una lunghissima lettera che è, di fatto, uno sterminato elenco di vestiti – “vestiti che ti saltano addosso”, “vestiti sereni”, “vestiti troppo sinceri”, “vestiti replicanti”, “vestiti di meticolosa tristezza”, “vestiti del perdono”, “vestiti lasciati in sospeso”, “vestiti che vogliono brillare, come le bombe” – perché non s’indossano abiti ma stati d’animo, possibilità emotive, storie proprie e altrui che cadono come possono, sul nostro corpo mutevole, scritto dalle opere e dai giorni.
Elenchi. Tanti, belli come scatole di bottoni antichi: i tipi umani del parco e i tessuti, le “cose che tremano” e gli usi dei foulard, le “cose che trovi sul balcone” e la “genealogia delle anime di estrazione floreale”. Appaganti, anche, come qualsiasi armadio ben stipato, dove – ogni donna lo sa, e pure qualche uomo avveduto e sensibile – si trova sempre qualcosa che ti consola, ti sorprende, ti vivifica. L’autrice precisa, nel titolo, che si tratta di un “atlante”: raccolta di geografie che definiscono il nostro mondo. Esattamente: i ghiacciai dei vestiti dimenticati, le metropoli dei “colletti ben stirati” o dei vestiti rabbiosi, i tropici dei “vestiti che sanno aspettare”, i poli dei “vestiti sopravvissuti”.
Parole. Assieme armadi e abiti, da indossare ma anche da usare come contenitori prodigiosi. L’Autrice ne ama moltissimo – d’un amore segreto e non ostentato – fogge, martingale e orli stondati, asole e pinces. Un amore percepibile solo in determinate increspature del linguaggio, allitterazioni appena accennate («fata attempata in taffetà», un «inzaccherare» che diventa «zucchero», la «conservazione dei ricordi» che muta in «conversazione dei ricordi», e immancabilmente gli «abiti» che diventano «alibi»). Come certi abiti in cui è un dettaglio segreto, una piega felice, una cucitura nascosta a illuminare l’insieme.
Numi tutelari. Tanti. Da Borges, che è il santo protettore degli atlanti (le mappe che – nel caso degli abiti – coincidono col territorio), perché «ogni armadio è come la biblioteca di Borges», a Perec, per l’inclinazione al catalogo e l’ambientazione in un condominio di Parigi (che non si sottrae alla vertigine dell’elenco in «versi e rumori da condominio tra un giovedì e venerdì qualunque»). Ma ci sono bagliori di Musil e Rilke, Emily Dickinson e Sylvia Plath, come abbaglianti riporti di tessuto che balenino da una fodera ben sistemata.
Volants. L’Autrice raccomanda alla figlia di diffidare «di donne con troppi volants e pinces, del dispendio ostinato di stoffa». Vale anche per i libri. Ma questo è un libro ben cucito, con una stoffa preziosa ma accogliente, una fantasia cangiante che dona senza consolare troppo, che inquieta senza atterrire, che scalda senza pesare, che non si perde negli ornamenti ma sa quanto è importante cadere bene lungo la linea dell’anima, e brillare. Un abito da conservare con cura nell’ultimo armadio, il cuore.