In tempi di disincanto quale il nostro, parlare di “trovature” può suonare anacronistico, fuori dal tempo. Tutti pensiamo di sapere che i cosiddetti “tesori nascosti” non esistono e che sono frutto della credulità e dell’ignoranza popolare. Così invece non è. E questo perché in molte realtà della provincia di Messina ancora oggi, sì ancora oggi, c’è chi parla delle trovature come di qualcosa non completamente destituito di fondamento. Se ne parla per sentito dire oppure si preferisce parlarne per allusioni, ma certo è che ancora oggi, specie tra i più anziani, le “trovature” sono un argomento vivo, a cui in un modo o in un altro si continua a credere.
A dare di recente una definizione di “trovatura” è stato Andrea Camilleri. “La trovatura” – ha scritto - è un tesoro che un povero contadino rinviene casualmente nel terreno che sta zappando, tesoro che gli cambia per sempre l’esistenza facendolo diventare favolosamente ricco. Di solito – prosegue Camilleri - la trovatura consiste in alcuni contenitori di terracotta (giare o quartare) stracolmi di monete d’oro, nascosti anticamente sottoterra dai briganti o da qualche proprietario terriero minacciato nelle sue ricchezze e da allora mai più potuti recuperare”.
Questa definizione che Camilleri fornisce nel suo libro “Il cielo rubato” contiene tutti gli elementi delle trovature, cioè dei cosiddetti tesori nascosti, che tra le leggende plutoniche sono tra quelle più suggestive e stimolanti e che sarebbe un errore grossolano, come dicevamo, confinare esclusivamente nell’ambito della credulità popolare. E questo perché in molti casi le leggende plutoniche hanno un fondamento reale, un riferimento storico preciso. “La’ dove sono ruderi di antichità greche o avanzi della dominazione araba, o resti d’un vecchio edificio qualunque – scrive il grande etnoantropologo Giuseppe Pitrè -, si è certi di trovare siffatti tesori, nascostivi dai padroni che li possedettero e che non poterono trafugarli in altra terra o portarli all’altro mondo”.
Pitrè ne ha raccolte un centinaio in tutta la Sicilia, ma le “trovature” sono molte, molte di più: non vi è grotta, anfratto, pizzo, rupe in cui la fervida immaginazione popolare non collochi giare di monete e gioielli, chiocce e pulcini d’oro. E questo risulta ancora più evidente in provincia di Messina, se ne seguiamo la distribuzione sulla cartina geografica. La prima “trovatura”, infatti, la incontriamo proprio nel capoluogo, a Messina, si tratta di quella di via Cardines, dove per “sbancare” il tesoro è necessario che un cavaliere con il cappello rosso (‘na scuzzetta russa) lanciato al galoppo sul suo cavallo riesca a leggere una misteriosa iscrizione osca che il popolo ritiene sia opera di un mago. Quindi troviamo seguendo il versante jonico dei Peloritani le trovature di Monte Scuderi (sicuramente la più famosa), della grotta Valori ad Alì, del Castello di Fiumedinisi, di Monte Cavallo a Mandanici, di Rocca Castello ad Antillo, della grotta di Grossei a Gallodoro, quello di Mongiuffi Melia, della chiesa di San Leo a Roccafiorita, di Monte Pipione a Motta Camastra, del castello a Roccella Valdemone per giungere a Rocca Salvatesta a Novara di Sicilia, punto di confluenza anche delle trovature del versante tirrenico peloritano. Quali ad esempio, quella di Belmonte a Santa Lucia del Mela, di monte Lymbia a Rodì, del tesoro del Castellaccio a Mazzarrà Sant’Andrea e dell’incanto di Castel d’Orlando.
L’origine delle trovature si fa risalire storicamente alla sciagurata fine di Giorgio Maniace, personaggio ormai scomodo alla politica bizantina in Sicilia, soprattutto dopo la resa di Siracusa. “Nel 1725 – racconta Pitrè – l’Aprile scrivea che, secondo una leggenda, l’imperatore Michele di Costantinopoli non avendo la forza di scacciare dalla Sicilia Maniace, reo di fellonia, promise ai Greci della Sicilia il doppio dei beni e dei tesori che lascerebbero nell’isola se si decidessero ad abbandonar Maniace”.
Le trovature, a giudizio di un altro famoso etnoantropologo, Luigi Lombardi Satriani, si distinguono in due specie, “libere” e “vincolate”. Le prime sono quelle casualmente scoperte, e le seconde, volgarmente dette “legate”, per le quali occorre la chiave o, come si usa dire, la chiamata, cioè la formula, per entrarne in possesso.
Per vincolare un tesoro, spiega Lombardi Satriani, era necessario un particolare e spesso cruento rituale. L’uomo che voleva nascondere le sue ricchezze, invitava un compare o un conoscente a seguirlo in campagna e, giunto sul luogo, diceva, volgendosi al compagno: sei buono a custodire questo tesoro, che io nascondo in questa buca? Avuta la risposta affermativa, aggiungeva: vedi, e sta’ bene a sentire quanto io ti dico. Tu devi custodire questo tesoro e lo devi dare soltanto a chi ti ripeterà le tali parole magiche o a chi farà tali sacrifici. E dopo aver dato tutte le istruzioni ed essersi bene assicurato che l’infelice aveva bene capito, lo ammazzava e lo sotterrava lì presso al tesoro.
I custodi più frequenti, però, sono lo Schiavo, i Nani, i Mercanti, il Serpente, ma spesso a guardia di essi sta addirittura il Diavolo in persona, come nella trovatura di Roccella Valdemone e quella di Mazzarrà Sant’Andrea.
Per riuscire a mettere le mani sul tesoro, e quindi per “sbancarlo”, cioè rompere l’incantesimo, il temerario di turno dovrà compiere una serie di prescrizioni rigidissime, l’inosservanza delle quali non solo non permette di trovare il tesoro, ma provoca un tale sconvolgimento che il malcapitato viene catapultato lontano senza ricordare quanto è accaduto.
Facciamo alcuni esempi: a guardia del tesoro della grotta Valori, in territorio di Alì, ci sono gli spiriti dei quattro domestici di un conte. Per impadronirsene occorre molto coraggio, non invocare né Dio né i Santi e portare con sé i cuori di sette fratelli “da consacrare alle ombre custodi”. Per impossessarsi, invece, del tesoro di Monte Lymbia, nei pressi di Rodì, è necessario nello spazio di dodici ore (da mezzanotte e mezzogiorno) preparare un tovagliolo di lino, avvolgervi una frittella di pane, recarsi a piedi dalla città alla Grotta dello Schiavo e mangiare la frittella prima che scocchi mezzodì. Per “sbancare” la trovatura di Castel d’Orlando (tra Novara di Sicilia e le frazioni di Rajù e Carnalì), ci vuole una donna che dovrà partorire in cima alla montagna e sacrificarvi il neonato.
Per non dire delle “trovature” più famose, come quelle di Monte Scuderi e di Rocca di Novara in cui compare il personaggio del Gran Turco che ogni giorno s’informa se il tesoro è stato trovato. Ed essendo la risposta immancabilmente negativa esclama sconsolato: “Povera Sicilia! Sarà sempre più povera sino a quando non avrà quel tesoro”.
Ma in che cosa consiste il tesoro delle trovature? Spesso in una chioccia e sette o 21 pulcini d’oro (è il caso delle trovature di Mandanici, Antillo, Salvatesta, etc.). Si tratta dei casi più frequenti, ma non mancano i tradizionali tesori in danaro sonante e gioielli di ogni foggia. A spingere il popolo a creare queste leggende, che in molti casi, come dicevamo all’inizio, possono prendere spunto da fatti realmente accaduti o attribuibili a figure storiche ben determinate: è il caso del bottino delle bande dei briganti o il bottino dei corsari saraceni che a partire dal XIV secolo imperversarono nel Mediterraneo e che trovavano comodo, durante le loro scorrerie, fermarsi lungo le fiumare della costa messinese e nascondere il bottino sulle vicine montagne.
Pitrè sostiene che all’origine delle leggende plutoniche comunque c’è l’innato desiderio del popolo di arricchirsi. A cui, a giudizio di Antonietta Iolanda Lima (che insegna storia dell’Architettura a Palermo), autrice tra l’altro del volume “La dimensione sacrale del paesaggio”, c’è da aggiungere l’esigenza di “comprendere e possedere lo straordinario del paesaggio. La terra, storicamente considerata parca e avara da parte di colui che la lavora, diviene come conseguenza la sede prediletta per un ribaltone totale del suo ruolo. Parlare di tesori, quindi – aggiunge la Lima – è chiarire l’atteggiamento del popolo nei confronti dello spazio che rinvia sempre alla sua grande precarietà economica e all’aspirazione di risolverla”.
Per Luigi Lombardi Satriani, curatore, tra l’altro del saggio “Santi, streghe e diavoli”, comunque, il fiorire di questo tipo di racconti non può trovare spiegazione solo nella speranza di un intervento magico che ti cambia la vita. A suo parere la loro pregnanza culturale si potrà intendere solo inserendoli “nelle condizioni di vita (misere fino all’insopportabilità) delle popolazioni meridionali. Condizioni – conclude – che spingono ancora una volta, le classi subalterne a protestare, attraverso l’unica forma consentita: quella del linguaggio folklorico”.
Ma se è vero com’è vero, alla luce delle prove difficilissime e a dir poco bizzarre, che è praticamente impossibile riuscire a mettere le mani su uno dei tanti favolosi tesori sparsi nel territorio, è anche vero che una “trovatura” è stata “sbancata”, anche se inconsapevolmente. Ed è avvenuto a Mandanici. E non parliamo della “trovatura” di Monte Cavallo, attorno alla quale tuttora esiste una pervicace ed invalicabile reticenza popolare. Bensì del ritrovamento avvenuto il 20 agosto del 1952 nella piazza del paese di una fiaschetta in terracotta che conteneva ben 44 monete risalenti al III secolo a. C. e che attualmente sono custodite nel museo “Paolo Orsi” a Siracusa.
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