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Argimusco, la Stonehenge siciliana

La Dea Orante

Con i suoi tanti misteri le Rocche dell’Argimusco è uno dei luoghi più suggestivi e affascinanti della Sicilia.

E questo anche se da qualche tempo l’enorme pianoro è diventato così famoso da essere frequentato persino da gite organizzate alla stregua di una sagra di paese.

Nulla, comunque, riesce a turbare l’atmosfera di indefinita magia che vi regna, dovuta all'inquietante presenza di enormi blocchi di pietra sparsi tutt’attorno e che fanno dell’Argimusco uno dei complessi megalitici più importanti e misteriosi d’Italia.

Non a caso tra gli appassionati si parla dell’Argimusco come della Stonehenge siciliana. Su tutta l’area che si stende ad un’altezza di oltre mille metri, a pochi chilometri da Montalbano Elicona, infatti, sono numerosi i megaliti dalle forme bizzarre, di grande plasticità, che esercitano su chi li guarda un fascino irresistibile. Sulla loro origine, diremo di qui a poco, tenuto conto del fatto che è in corso un duro confronto tra due scuole di pensiero.

La sensazione che si ha percorrendo in lungo e in largo, questo luogo poco distante dal Bosco di Malabotta e visibile da molto lontano, è di trovarsi comunque al centro di un’area sacra, dove con tutta probabilità si svolgevano rituali misteriosi legati al ciclo delle stagioni e che servivano a ribadire il forte legame tra il cielo e la terra. Comunque, certo è che nei pressi dell’Argimusco sorgeva una necropoli, di cui sono diretta testimonianza i numerosi menhir sparsi intorno, così come i dolmen, monumenti funerari che in molti casi sono stati occupati dai pastori per farne ripari di fortuna per loro e le loro bestie.

L’Argimusco sorge al confine tra Nebrodi e Peloritani. Dei Peloritani ha già perso l’asprezza per conquistare la dolcezza dei rilievi nebroidei. A nord suo naturale confine è la linea di costa tirrenica che corre da Messina a Palermo, mentre a sud la vista abbraccia la possente mole dell’Etna. A est si indovina la spigolosa cima della Rocca di Novara e ai suoi piedi la Rocca Leone, che ricorda vagamente una Sfinge.

Dicevamo dell’origine dei megaliti e delle due ipotesi in campo. L’ipotesi più accreditata è quella che si tratta di un sito preistorico risalente a circa 6000 mila fa. A sostenerla con fermezza, il prof. Giuseppe Todaro, uno dei conoscitori più profondi dell’Argimusco.

Esponente dell’altra teoria, che negli ultimi anni sta riscuotendo sempre più successo, è quella portata avanti dallo studioso inglese Paul Devins e dal compianto storico di filosofia medievale, Alessandro Musco, che ritengono l’Argimusco un sito archeo-astronomico, risalente al Medioevo. L’Argimusco, secondo loro, «sarebbe un grande talismano stellare per le cure mediche del re e della famiglia reale, per come insegnavano la melotesia e la medicina astrologica araba recentemente portate dai Catalani in Sicilia, tra di essi il medico di corte, l’alchimista Arnaldo da Villanova».

Il pianoro è possibile visitarlo tutto l’anno. Ogni stagione gli conferisce un fascino particolare. Ma è chiaro che l’effetto maggiore si ottiene in inverno, specie quando si alza la nebbia e le sagome di calcare appaiono e scompaiono, lasciando senza fiato i visitatori.

Grande la meraviglia che si prova davanti ai menhir del Maschio e della Femmina all’ingresso del pianoro, così come della Civetta, del Teschio, ma soprattutto davanti all’Aquila, pronta a spiccare il volo verso l’orizzonte. Ma la “presenza” più inquietante è indubbiamente la cosiddetta Dea Orante, il profilo di pietra alto 26 metri che compare all’improvviso e che esiste solo nella spazio di una prospettiva. Appena si abbandona questa linea l’immagine svanisce, la pietra ritorna ad essere pietra e non c’è modo di convincere la roccia a restituirci il profilo di quell’esile figura che prega a mani giunte.

«A mio giudizio – sostiene Todaro - su un precedente disegno abbozzato dalla natura l’uomo primitivo ha esercitato la sua azione modificando e modellando le forme originarie».

Questo vale chiaramente anche per l’Aquila, composta da diversi blocchi, così come per il tetraedro, la svastica che si leggeva prima chiaramente su una roccia, il santuario e l’osservatorio lunisolare che si trova sulla stessa rupe dell’Orante. «Si tratta - scrive Todaro - di una trincea arcuata parzialmente erosa dal tempo, ma perfettamente riconoscibile».

Todaro, infine, si spinge fino a trovare affinità tra l’Argimusco e due sorprendenti monumenti megalitici che si trovano in Alto Adige. Si tratta di delle cosiddette stazioni astronomiche del Colle Joben, presso San Michele d’Appiano e del Colle San Pietro, presso Fiè.

La teoria di Devins e Musco, invece, si centra su tre figure fondamentali: Federico III d’Aragona, re di Sicilia dal 1296, la moglie, Eleonora d’Angiò, e il grande studioso, medico e alchimista Arnaldo da Villanova.

Devins e Musco sottolineano la grandezza di Eleonora e a lei fanno risalire l’edificazione dell’Argimusco. Nella statua megalitica alta 26 metri, infatti, loro vi riconoscono la regina Eleonora, della quale esiste un solo ritratto ed è quello sotto la Vergine nel mosaico nell’abside di sinistra della Cattedrale di Sicilia.

D’altronde, dicono i due studiosi, l’uso delle dita intrecciate in preghiera non è pre-cristiano. Intrecciare le dita era anzi considerato fonte di malaugurio nella civiltà greco-romana. Le teorie di Devins e Musco sono state raccolte in un libro “Argimusco decoded”, che ha molta fortuna tra gli appassionati di esoterismo. “I megaliti – scrivono Devins e Musco - sono in relazione con le costellazioni celesti, non in allineamento, come negli altri siti megalitici del mondo, ma quale  specchio delle stesse costellazioni”. Ed ancora: “Se saliamo sull’altipiano e ci mettiamo rivolti con la faccia a sud al centro del pianoro, tenendo il megalite dell’Aquila sulla nostra sinistra e il megalite della cosiddetta Orante sulla nostra destra, si potrà cogliere il senso dell’immenso “talismano stellare” realizzato sull’Argimusco”.

 

Una battaglia destinata ancora ad arricchirsi di colpi di scena e teorie sempre più ardite, che comunque non faranno altro che alimentare il fascino di questo luogo senza tempo che è l’Argimusco.

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